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- La inclusione della disciplina delle prestazioni sociali nella Costituzione del 1948, anche e proprio perché non ha rappresentato una scelta isolata nel quadro delle Carte Costituzionali europee uscite dalla seconda guerra mondiale, ha avuto una grande importanza per i successivi sviluppi costituzionali.
L’affrontare questo tema a sessant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione Repubblicana con l’idea di sottolineare i profili di continuità tra passato e presente, magari con l’occhio al futuro, non potrebbe, tuttavia, che essere velleitario; poiché oramai è davvero sotto gli occhi di tutti che le premesse culturali con cui i giuspubblicisti hanno letto le previsioni costituzionali del 1948 sulle prestazioni sociali, sebbene a scanso di equivoci in larga misura allineate alle premesse con cui tanti degli stessi Costituenti le avevano scritte, non hanno prodotto, né tantomeno stanno producendo, gli esiti attesi.
Ne è testimonianza l’affacciarsi nella letteratura giuridica e costituzionale di riferimenti insistenti al “ridimensionamento”, se non proprio al “declino”, di quello che è stato chiamato “stato sociale”.
Il problema da porre in un tale contesto, per ciò che ci compete come giuristi, è dunque un problema sgradevole: giacché o le premesse culturali del disegno costituzionale sulle prestazioni sociali possono, e debbono, essere riesaminate, anche discostandosi in parte dalle intenzioni originarie dei Costituenti, oppure non c’è che da prendere atto che l’esperienza allora iniziata ha intrapreso percorsi per noi non del tutto comprensibili.
- Peraltro, il nostro dovere di giuristi, fin dove riusciamo, è cercare di capire o dare spunto per la comprensione di cosa è accaduto e sta accadendo.
Con questo spirito, bisogna riandare anzitutto alla circostanza che uno degli assunti in larga misura condivisi dai Costituenti, gravido di conseguenze e tenuto in gran conto dalle dottrine giuridiche, è stato quello per cui le prestazioni sociali disciplinate dalla Costituzione, in genere e con rare eccezioni, sarebbero bisognose di svolgimento e specificazione dal legislatore politico (e democratico), per poter divenire, solo grazie alla legge, traducibili in situazioni giuridiche soggettive perfette.
Si noti, a scanso di equivoci, che tale assunto, già in Assemblea Costituente, non è stato affatto l’appannaggio di culture giuridiche e costituzionali diffidenti o addirittura ostili verso le prestazioni sociali, ai lavoratori o ad altri che avessero da rimuovere “ostacoli di fatto” alla propria libertà ed eguaglianza, ma è stato il punto di partenza generalmente accettato: lo stesso P. Togliatti, personaggio al riguardo non sospetto, nella Relazione alla I Sottocommissione, ritenne che “la garanzia di una effettiva traduzione in pratica dei nuovi diritti di carattere sociale non potrà essere trovata altrove che in un indirizzo della attività economica di tutto il paese”, chiamando a soccorso i principi della “legalità democratica” e della “democrazia progressiva”.
Un tale approccio agli interrogativi sulle prestazioni sociali, d’altra parte, non aveva alle spalle solo motivazioni politiche che pure e naturalmente hanno pesato, ma una precisa visione dell’impianto giuridico della Costituzione.
Non si è trattato neanche (o solo) della distinzione, di cui si discusse in Costituente e che poi è stata lungamente messa alla prova dalla giurisprudenza, tra le disposizioni costituzionali interpretabili come “precetti giuridici” e quelle che avrebbero avuto invece carattere meramente “programmatico”; giacché a poter venire in gioco non è stata, e non è, tanto o solo la forza o la determinatezza, e quindi anche la giustiziabilità, della normativa costituzionale sulle prestazioni sociali, quanto la peculiarità dell’oggetto disciplinato in relazione al modo di essere complessivo della Costituzione rispetto ai diritti delle persone.
Il fatto è che la Costituzione, tanto nell’ottica dei Costituenti quanto in quella dei giuristi-interpreti, è rimasta essenzialmente, com’era nella tradizione, la Costituzione dello Stato, in quanto sovrano avente il monopolio della politica, del diritto e, quindi, della stessa demarcazione e distribuzione delle posizioni soggettive di vantaggio dei consociati.
Una tale perdurante visione della Costituzione ha avuto riflessi più modesti, seppure non sia stata del tutto indifferente, per la protezione delle libertà civili o di quegli altri diritti o libertà, come il diritto di proprietà o la libertà di iniziativa economica privata, alle stesse libertà civili tradizionalmente assimilati. In proposito, per attutire gli effetti dell’essere la libertà sormontata da un sovrano, ed anzi ribaltare una simile circostanza in chiave garantistica, è stato sufficiente – per la verità con qualche forzatura che per la proprietà e l’iniziativa economica è clamorosa – attenersi all’insegnamento tramandato per cui l’assicurare le libertà civili non consisterebbe in altro, per lo Stato, che nel permettere, e cioè esplicitamente tutelare rispetto ai poteri squisitamente pubblicistici l’esercizio di determinate facoltà private, astenendosi dall’intervenire ed offrendo loro protezione dall’altrui ingerenza.
In tal guisa, può diventare scontato che la garanzia delle libertà civili (e dei diritti ad esse assimilati), in quanto realizzata mediante un obbligo o dovere “di astensione”, di non dare o di non fare, lascia integra la responsabilità che ciascuno ha di sé e non tira in causa, oltre appunto al trapasso allo Stato di responsabilità altrimenti private, utilizzo o dispersione di risorse della collettività, potendo tra l’altro, e per ciò stesso, essere accordata a chiunque pur non contribuisca alle finanze statali, in qualunque contesto sociale ed economico; così come può diventare logico che lo Stato, nell’obbligarsi esso stesso sovrano all’ “astensione”, imponga lo stesso obbligo di astenersi a tutti, proteggendo le facoltà in cui sostanzia la libertà come diritto assoluto, azionabile erga omnes.
Mentre, sempre nella prospettiva dell’esclusiva statale sulla Costituzione, nonché sulla politica e sul diritto, il discorso cambia radicalmente quanto alla garanzia di prestazioni sociali, le quali, per definizione, implicano, per essere soddisfatte, un obbligo o dovere positivo, di dare o di fare; il soddisfacimento di siffatte prestazioni sociali comporta necessariamente l’impiego di risorse a ciò dedicate, e non può, dunque, che essere “graduale” o “condizionato” al reperimento delle risorse medesime dalla collettività, quando il contesto sociale ed economico lo consenta; con il che diventa scontato altresì che, proprio in quanto sovrano, debba essere normalmente lo Stato, e non debbano essere invece i soggetti privati, ad assicurare le prestazioni sociali.
Ancor oggi, A. Pace stima, ad esempio, che, anche dall’angolazione costituzionale, vi debba essere correlazione tra la contribuzione alla spesa pubblica ed il godimento delle prestazioni sociali, da un lato, e, dall’altro, che il diritto alla retribuzione sufficiente e proporzionata dell’art. 36 cost., in quanto azionabile immediatamente dal lavoratore verso il datore di lavoro, vada considerato come un “caso particolare”, rimanendo di regola l’obbligo alla prestazione sociale in capo allo Stato e, soprattutto, restando valida l’osservazione di P. Calamandrei per cui, nel “promettere” le prestazioni sociali, “si pongono per lo Stato formidabili compiti che non possono essere adempiuti coll’inerzia e coll’astensione” (…); con l’effetto che “il vero problema politico (…) è quello di predisporre i mezzi pratici per soddisfarli” ed evitare che i “diritti sociali” rimangano “vuota formula teorica”.
- Questa maniera di ragionare è uscita apparentemente vincente, o forse solo è stata tenuta ferma come tramandata, nella cultura giuridica e costituzionale del ‘900: la differenza ultima tra i“diritti soggettivi pubblici”costituzionalmente protetti ed i diritti privati, per quello che ha potuto esserlo, è stata rintracciata proprio nell’essere il soddisfacimento dei primi ricondotto allo Stato sovrano, di cui la Costituzione sarebbe la manifestazione suprema; con il corollario che la differenza tra obblighi positivi, di dare o di fare, ed obblighi negativi, di non dare o non fare, avente nel diritto privato portata modesta giacché attinente all’esecuzione della prestazione ed alle forme della responsabilità per l’inadempimento, avrebbe capitale rilievo nel diritto costituzionale, come parte del diritto pubblico.
D’altro canto, è questo l’assetto che, per tanta parte degli ultimi sessant’anni, ha connotato il diritto costituzionale non soltanto in Italia, ma anche in Europa: senza avventurarsi nel diritto costituzionale di altri paesi, basti riandare alla protezione sopranazionale delle prestazioni sociali che non solo è rimasta silente per decenni nel diritto comunitario, ma ha avuto assai poco credito anche presso il Consiglio d’Europa, ove la Carta sociale ha avuto ben diversa sorte, quanto anche ai meccanismi per la sua applicazione, a paragone della Convenzione europea per i diritti dell’uomo. Indubbiamente, su queste vicende hanno avuto grande influenza, sul piano delle relazioni internazionali, la “guerra fredda” e la divisione del mondo per “blocchi”. Ed infatti, dopo il 1989, la tendenza è parsa mutare; ma è altrettanto indubbio che il relegare le prestazioni sociali, a differenza delle libertà civili, a fatto “politico” dei legislatori nazionali non avrebbe potuto darsi, se non avesse trovato terreno fertile nel diritto costituzionale degli Stati nazionali.
Il lasciare in ombra l’attitudine della Costituzione a demarcare essa stessa i contorni delle prestazioni sociali come situazioni soggettive perfette, per demandarne la tutela al legislatore politico o all’amministrazione pubblica (ed alle lotte sociali) sotto l’insegna della “democrazia progressiva”, ha peraltro in Italia prodotto dei frutti; l’eredità fascista dell’organizzazione dello Stato sociale di stampo corporativo ed autoritario, fotografata dalla carta del lavoro del 1927 per cui la “nazione” sarebbe “organismo avente fini, vita, mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o raggruppati che la compongono” (art. 1) ha avuto un peso enorme, soprattutto nel periodo difficile della ricostruzione post-bellica; ma, negli anni ’60 e ’70, le cose sono sembrate cambiare sostanzialmente: la disciplina della scuola è stata riadeguata nell’ottica dell’istruzione “di massa”; il sistema previdenziale-pensionistico pubblico è stato razionalizzato e riorganizzato intorno al principio retributivo; i servizi sociali sono stati, benché a fatica, ricondotti al governo dei corpi politici democratico-elettivi, in specie con la regionalizzazione; l’assistenza sanitaria pubblica è stata profondamente riformata con il “servizio nazionale”.
Ciò nondimeno, negli ultimi decenni questa tendenza ad espandere e potenziare le prestazioni sociali a carico dello Stato, se non invertita, è stata rimessa in gioco da una serie di fattori che non paiono transitori: le esigenze del contenimento della spesa pubblica, in quanto collegate anche al trasferimento di poteri di normazione all’Unione europea, alla moneta unica e più latamente alla frammentazione dei centri di regolazione economica, nonché i massicci ed almeno in parte conseguenti processi di “privatizzazione” di beni e servizi, incentivati dall’azione dei mercati internazionali, hanno scosso, profondamente, la fiducia nel ruolo risolutivo che il legislatore politico, raccogliendo le istanze democratiche del suffragio universale, potrebbe svolgere quanto anche solo al consolidamento o al mantenimento delle prestazioni sociali.
La questione non è stata e non è tanto o solo quella dell’affermarsi di orientamenti di legislazione propensi a ridurre l’iniziativa pubblica in campo sociale, ma è quella della rimessa in gioco dell’idoneità dello Stato a governare effettivamente da sovrano, attraverso i meccanismi democratici, le attività economiche e, dunque, la società: ad essere importante non è l‘orientamento politico del momento, più o meno favorevole al contenere le spese o alla “privatizzazione”, ma è la scarsa attendibilità mostrata dall’idea che il legislatore politico, per l’essere “democratico”, debba per forza mantenere le “promesse” di protezioni sociali “progressivamente” più ampie.
- In questo mutato contesto, affiorano però, primariamente dalle Corti e dalla giurisprudenza, anche indizi di altro: è una constatazione che sarebbe arduo contraddire, sul piano dei fatti storici, quella che le Corti ed i giudici ricavano oggi, dal testo costituzionale italiano del 1948 sulle prestazioni sociali una gamma di significati, e quindi di vincoli giuridici, persino impensabili sia per i Costituenti che per i primi interpreti della Costituzione.
L’intensificazione dell’azione delle Corti e dei giudici nella garanzia delle prestazioni sociali, che guardando all’insieme di questi ultimi cinquant’anni è addirittura impressionante, non può, si badi, essere letta in chiave di contrapposizione, o di supplenza, al legislatore politico democratico; l’azione giurisdizionale non ha né scalzato né colmato i vuoti dell’azione legislativa, ma l’ha semmai affiancata e, soprattutto di recente, ne ha temperato gli eccessi.
Infatti, la fase post-bellica, in cui come detto fu difficile anche solo l’avvio ad opera del legislatore dello smantellamento dell’organizzazione fascista delle prestazioni sociali, è stata anche quella, almeno in Italia, in cui la giurisprudenza è stata più prudente nell’interpretare ed applicare la Costituzione; mentre l’intervento della giurisprudenza è divenuto più incisivo allorché, negli anni ’60 e ’70, il legislatore repubblicano si è esso stesso maggiormente attivato, nel predisporre e mutare la disciplina della prestazioni sociali, almeno sul versante della relativa organizzazione amministrativa pubblica. La giurisprudenza, almeno fino ad un certo punto, ha seguito il solco dell’azione del legislatore, la quale ha provveduto a realizzare le premesse, primariamente al livello dei compiti e dell’organizzazione della pubblica amministrazione, affinché fosse possibile tradurre in situazioni giuridicamente tutelate le pretese a prestazioni sociali.
E’ vero semmai che oggi, in una fase contrassegnata sul versante della legislazione e dell’amministrazione pubblica dalle esigenze di contenimento della spesa e dalle “privatizzazioni”, gli indirizzi giurisprudenziali via maturati nell’interpretazione delle clausole costituzionali sulle prestazioni sociali ci appaiono in una luce diversa; che la giurisprudenza, costituzionale o comune, tenda a valorizzare, “magis ut valeat”, la Costituzione ci può apparire più problematico, ma solo perché è il legislatore politico ad aver mutato rotta in proposito.
In realtà, nella giurisprudenza non c’è stata mai una marcata svolta, ma solo l’affinamento di orientamenti che si sono affermati da tempo. Si pensi, per mera esemplificazione, alla giurisprudenza sul diritto di ricevere cure, e sul diritto di riceverle se del caso gratuitamente, agganciati direttamente all’art. 32 cost., sebbene talora incomprensibilmente, quanto appunto alla gratuità, a prescindere dal presupposto dell’ “indigenza” dalla stessa Costituzione enunciato; oppure si pensi, quanto ai regimi pensionistici, a quella giurisprudenza costituzionale, che può avere importanza cruciale nel trapasso da criteri retributivi a criteri contributivi nella liquidazione dei trattamenti, la quale ha sottolineato il nesso tra l’ “avere mezzi adeguati alle (…) esigenze di vita”, di cui all’art. 38, ed il principio della retribuzione “sufficiente” e “proporzionata” dell’art. 36 cost.; o, ancora, si pensi alla giurisprudenza sull’inserimento scolastico o a quella sulla tutela dei minori.
Queste ed altre consimili sono tutte cose che non sono nate d’improvviso, né sono state improvvisate ma sono nel tempo sedimentate. Le Corti ed i giudici semplicemente hanno tenuto fermo quanto acquisito, come unica novità limitandosi a non seguire dappresso il legislatore politico ed a concedere al legislatore medesimo (ovvero alla normazione ed all’azione amministrativa), sotto l’insegna della “ragionevolezza”, uno spazio di discrezionalità controllata, oltrettutto talora sin troppo largo.
La relativa fermezza della giurisprudenza, nel salvaguardare come intangibile un nucleo di principi e regole sulle prestazioni sociali tratto in presa diretta dalla Costituzione non può peraltro stupire né pare, in sé, passibile di critica; giacché il prendere le distanze dal legislatore politico e dalle sue decisioni contingenti, ancorché democraticamente assunte, è una delle non infinite alternative che si offrono, realisticamente, per scongiurare che dall’appassimento della nozione di sovranità statale, che per come forgiata tra ‘800 e ‘900 è stata per i costituzionalisti italiani ed europei un ideale da conseguire, discenda l’appassimento del costituzionalismo e dell’idea (o dell’ideale) stessa(o) della Costituzione come norma giuridica.
Una volta che si prenda atto della scarsa credibilità del legislatore e dell’insieme dei pubblici poteri nell’ incarnare quel sovrano onnipossente ed invincibile che si era pensato potesse essere lo Stato nazionale, può diventare logico ed anzi naturale, per le Corti ed i giudici, a cui sotto la copertura della statualità è stata consegnata e conservata la missione per essi tradizionale del dicere jus, il tenersi discosti e tendenzialmente equidistanti da tutti gli (altri) attori nell’assicurare l’applicazione della Costituzione, e di tutta la Costituzione, alla stregua di una sorta di diritto comune. Il diritto costituzionale può tornare ad apparire contraddistinto, più che dall’essere manifestazione e strumento dello Stato sovrano, dalla relativa immutabilità ed intangibilità delle sue regole e dei suoi principi, come era apparso quantomeno con riferimento alle libertà civili ed alla proprietà in talune sue rappresentazioni settecentesche.
E questo rinnovato modo di essere della Costituzione, come diritto comune a tutti i soggetti anche privati più che come “diritto politico”, per le stesse motivazioni che lo sorreggono, non può non coinvolgere, accanto alle libertà civili ed economiche che sebbene con forzature già da molti erano collocate in una tale prospettiva, anche la garanzia delle prestazioni sociali, la cui qualificazione come “diritti” soggettivamente protetti, se non negata, era parsa precaria; poiché a venir meno è proprio la raffigurazione dello Stato che aveva alimentato la credenza nel ruolo salvifico della “democrazia progressiva” custodita dal legislatore politico, quanto alla garanzia delle prestazioni sociali, la pretesa a queste stesse prestazioni o è un “diritto” o non è nulla, nel senso che si diluisce integralmente nei temi della lotta politica e sociale generalmente intesa.
In altre parole, poiché è la stessa categoria dei “diritti pubblici soggettivi” in quanto diritti concessi e da esercitare verso il sovrano a tramontare, non ha neppure più senso il chiedersi, secondo gli schemi tramandati dalla dottrina, se le prestazioni sociali diano luogo a “diritti sociali”, da ricomprendersi a titolo pieno tra quei medesimi “diritti pubblici soggettivi”, o siano da trattare diversamente; il problema diventa solo, per le prestazioni sociali come per le libertà civili ed economiche, di capire fin dove la Costituzione permetta di tutelare diritti soggettivi o comunque situazioni giuridiche soggettive; e questo problema non può che essere risolto, laicamente, interpretando volta a volta la Costituzione come testo giuridico.
- Che quella appena indicata possa essere la direzione in cui procedono le trasformazioni del diritto costituzionale, d’altronde, sembra comprovato dall’accoglienza tiepida ricevuta presso la giurisprudenza dal convincimento, come accennato resistente nella dottrina, che le prestazioni sociali, differentemente dalle libertà civili ed economiche, siano da garantire solo dallo e verso lo Stato o il pubblico potere, lasciando in disparte le responsabilità dei privati.
Quantunque non sempre la dottrina guardi a ciò da questa angolazione, forse solo per allontanare la necessità di un ripensamento scomodo, nella giurisprudenza non è raro che regole o principi costituzionali siano posti a fondamento di obblighi o doveri di soggetti privati, verso altri soggetti parimenti privati, circa un fare o un dare assimilabile a prestazioni sociali.
Si ponga mente, ad esempio, a come i principi e le regole sulla famiglia degli artt. 29 e 30 Cost., incluso il principio di “eguaglianza” dei coniugi, siano interpretati ed applicati, a fianco delle norme civilistiche, per dare sostanza al “diritto”, che è anche un “dovere”, di istruire, mantenere ed educare i figli; il quale “diritto” e “dovere” di istruire, mantenere ed educare i figli di sicuro si estrinseca in attività avvicinabili alle prestazioni sociali che possono essere e correntemente sono esercitate dai soggetti pubblici a favore dei figli stessi, anche nella loro qualità di minori, dal momento che la legge è altresì deputata a provvedere sull’assolvimento di tali compiti dei genitori, “nei casi di incapacità” (art. 30, comma 2 Cost.).
Oppure si ponga mente alla giurisprudenza che, a garanzia (anche) del diritto alla salute dell’art. 32 cost., ha ritenuto sussistente la responsabilità dei privati per il cd. “danno biologico” o per il cd. “danno all’ambiente”. Non si ignora che, nell’inquadramento di queste fattispecie, si è ricorsi in giurisprudenza alla figura del “danno-lesione”, significativamente di problematica collocazione entro la trama del diritto privato, per indicare che ad essere violato sarebbe immediatamente il “diritto all’integrità psico-fisica” individuale, riallacciabile ad un diritto di libertà civile da collocarsi in prossimità di quelli sanciti dagli artt. 13 e ss. Cost.
Ma questo, se non proprio una finzione, è un accorgimento per non dover fronteggiare più complicati quesiti: poiché, per quanto si manipolino i principi sull’illecito civile, resta ben arduo, una volta ammessa una responsabilità (anche) riparatoria per i “danni biologici” o per quelli all’ “ambiente”, non ammettere, a monte di tale responsabilità, l’esistenza di obblighi o doveri, variamente riscostruibili e modulati in capo al responsabile, di fare o dare ciò che va dato o fatto per prevenire danni all’altrui “integrità psico-fisica”; e, di nuovo in questo frangente, ciò che è dovuto da privati può divenire indistinguibile da prestazioni sociali, quali quelle che gli stessi soggetti pubblici sono chiamati ad erogare per la prevenzione sanitaria.
Certamente, il discorso poi cambia, e diviene più delicato, quando le prestazioni sociali, per raggiungere lo scopo, debbono essere inserite in una programmazione ed organizzazione più vasta e complessa, come accade, oltre che per la generalità delle stesse prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione a tutela della salute, per la previdenza e l’assistenza o per l’istruzione e la scuola, o anche per le agevolazioni alla famiglia.
Sotto questo profilo, che siano e debbano essere lo Stato ed i pubblici poteri ad attivarsi, affinché le prestazioni sociali previste in Costituzione divengano esigibili, non sembra seriamente controvertibile. Tanto che la stessa giurisprudenza della Corte costituzionale ha spesso subordinato l’esigibilità dei diritti alla prestazione alla presenza di un’organizzazione pubblica acconcia ad assicurarli, anche con riferimento alla pianificazione della spesa pubblica.
Ma anche per questo aspetto, occorre comprendersi bene: poiché la circostanza che taluni obblighi o doveri di erogare prestazioni sociali non siano esigibili, quando lo Stato, anzitutto come legislatore, non abbia di fatto approntato l’organizzazione, non abbia distribuito i relativi compiti o non abbia statuito sulle risorse all’uopo indispensabili, non autorizza affatto l’illazione che i privati non abbiano al riguardo compiti o responsabilità loro proprie.
La Costituzione, ad una lettura obiettiva ed al contrario di quel che sostenuto anche in dottrina in virtù di retaggi culturali del passato, non ci dice affatto che i privati, come tali ed in linea di principio, sono esonerati dall’obbligo o dal dovere di rendere le stesse prestazioni sociali dovute dallo Stato o da soggetti pubblici: gli artt. 31, 32 e 34 cost., demandando rispettivamente la tutela della famiglia o dei minori, la tutela della salute e quella dell’accesso all’istruzione dei “capaci e meritevoli” alla “Repubblica”, la demandano ad un’entità impersonale che, secondo l’interpretazione sistematica di un’autorevole dottrina, va a coincidere con l’intera gamma dei soggetti, sia pubblici che privati, coinvolti nell’attuazione della Costituzione stessa (F. Benvenuti, G. Berti); l’art. 33 cost. si spinge anche più in là, poiché, a fronte del “diritto” dei privati di “istituire scuole ed istituti di educazione” (comma 3), pone anche il principio che le scuole private, se chiedono la “parità” a quelle pubbliche, debbono per legge assicurare “ai loro alunni un trattamento equipollente”; mentre, infine, l’art. 38 Cost., nel deferire di provvedere ad “organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato” (comma 4), con il corollario della “libertà” dell’assistenza privata (comma 5), lascia solo intendere che l’inserimento dei privati stessi nelle iniziative pubbliche per l’assistenza e la previdenza è solo eventuale e deve, con opportune cautele, essere imposto per legge, come del resto esige il principio dell’art. 23 cost.
L’introduzione di obblighi o doveri dei privati in ordine a prestazioni sociali costituzionalmente dovute, lungi dal costituire un’eccezione o un “caso particolare”, rientra quindi nella normalità. I motivi dell’esonero da responsabilità dei privati, allorché ci sono e perché ci siano, non vanno pertanto ricercati in una supposta natura intrinsecamente pubblicistica delle prestazioni sociali, bensì, e solo, nell’interpretazione della specifica clausola costituzionale concernente la specifica prestazione sociale, senza che si dia altro criterio risolutivo di più generale applicazione.
Primariamente quando le prestazioni sociali vadano ad inserirsi in un’organizzazione ed in una programmazione di risorse più ampia e complessa, può essere che sia la Costituzione a demandare, o persino riservare, al legislatore una più compiuta definizione degli obblighi o dei doveri dei privati per le prestazioni sociali, come avviene anche per taluni diritti individuali del lavoratore da rendersi indisponibili alle contrattazioni private (comma 2 e comma 3 dell’art. 36 Cost. e art. 37 Cost.); e può essere la Costituzione, come avviene per l’assistenza e l’istruzione, a più comprensivamente definire l’esercizio di determinate attività, se pubbliche annoverabili come prestazioni sociali, come esercizio di “libertà” o “diritti” se private; il che è ciò che può indurre a ritenere che, in questi specifici campi, il legislatore stesso non possa imporre ai privati più di ciò che la Costituzione consente di imporre, per il rispetto della “libertà” e dei “diritti” loro accordati; per esemplificazione, l’interrogativo sulla possibilità che il legislatore possa imporre la gratuità dell’istruzione obbligatoria (art. 34, comma 2 Cost.) alla scuola privata, va risolto preliminarmente stabilendo se tale garanzia di gratuità possa essere ricompresa nel “trattamento equipollente” da assicurare agli “alunni”, che è vincolo costituzionale alla scuola privata medesima, quando aspiri alla “parità”.
Il che non toglie che là dove, seppure non intestandoli ex professo ai soli privati, la Costituzione definisca in modo compiuto obblighi o doveri inerenti a prestazioni sociali, come non bisognosi di essere ulteriormente definiti o come già definiti dal legislatore, non c’è davvero ragione perché tali obblighi o doveri non debbano imporsi, indifferentemente, ai medesimi soggetti privati o a quelli pubblici; la Corte costituzionale, ripetutamente e correttamente, ha rigettato i tentativi di invocare il “diritto” della scuola privata “paritaria” per rendere meno rigorosa l’ “equipollenza del trattamento” degli “alunni” in confronto a quello della scuola pubblica; così come, probabilmente, si potrebbe giungere a ritenere esteso a soggetti privati che erogano prestazioni sanitarie l’obbligo delle “cure gratuite” agli “indigenti”, quando si tornasse a riconsiderare più attentamente la precisa portata del disposto dell’art. 32 cost.
- In altre parole, ed anche per come la giurisprudenza ha contribuito ad interpretarla, tra la disciplina delle prestazioni sociali e quella delle libertà civili ed economiche, nella Costituzione italiana, non pare riscontrabile il divario incolmabile immaginato dalla dottrina del diritto costituzionale. Poiché anche le norme costituzionali sulle prestazioni sociali, come quelle sulle libertà civili ed economiche, possono dar luogo a situazioni giuridicamente tutelate, vedendosi riconosciuta una propria sfera di applicazione relativamente indipendente dagli svolgimenti che possa darne il legislatore politico, da un lato, e, dall’altro, sono suscettibili di vincolare anche i privati e non solo i soggetti pubblici, dovrebbero cadere, tra l’altro, i timori spesso e ricorrentemente evocati contro l’elevazione delle prestazioni sociali ad oggetto di“diritti costituzionali”.
Proprio perché essa come protezione giuridica ha una propria e circoscritta sfera di applicazione, non estensibile ad arbitrio dal legislatore politico, non ha più senso evocare il timore che la garanzia delle prestazioni sociali, come tale, vada ad ottundere la responsabilità dell’individuo, incoraggiandolo a mettere le propria sorte indistintamente a carico della collettività; né ha più senso, dal momento che la loro erogazione in linea di principio può gravare sui privati e non solo sullo Stato e sui pubblici poteri, il postulare che la tutela delle prestazioni sociali debba “graduarsi” o essere “condizionata” strettamente alla disponibilità di risorse raccolte con mezzi pubblicistici.
La differenza tra la tutela accordata a quelli che dovremmo a questo punto e finalmente poter chiamare “diritti costituzionali sociali” e gli (altri) diritti di libertà civile od economica andrebbe, piuttosto, ragguagliata alla distinzione tra obblighi positivi, di fare o di dare, ed obblighi o doveri negativi, di non dare o non fare, come delineata nel comune diritto delle obbligazioni, ossia come essenzialmente pertinente all’esecuzione della prestazione: anche il rilievo talora accordato, nelle valutazioni giuridiche, a fatti come il “contenimento” o la “sostenibilità” della spesa andrebbe, al più, circoscritto all’ambito dell’eseguibilità effettiva della prestazione, essenzialmente in termini di “ragionevole” possibilità o di non eccessiva onerosità della stessa.
Si è consapevoli, beninteso, che questo accostamento della garanzia dei diritti sociali a quella delle libertà civili ed economiche, anche presso le Corti ed i giudici, non è un dato consolidato ma soltanto un tema di dibattito aperto, non solo oltretutto al livello del diritto Costituzionale italiano, ma anche del diritto europeo.
Basti menzionare la questione, che la giurisprudenza italiana sembra aver avviato a soluzione e che, però, resta largamente irrisolta in Europa, della estensione delle garanzie dei diritti sociali senza vincoli di cittadinanza o nazionalità, e quindi della loro inclusione tra i diritti fondamentali.
Con la revisione della Carta sociale del Consiglio d’Europa, con la giurisprudenza della Corte di Strasburgo sulle discriminazioni nella distribuzione dei benefici pubblici e con la stessa Carta di Nizza, improntata al principio di “indivisibilità” e dunque di pari garanzia per tutti i diritti, di carattere civile, economico o sociale, la questione è stata riproposta. Ma non è casuale che, come sappiamo, proprio l’inclusione dei diritti sociali tra i diritti fondamentali sia stata uno dei nodi critici delle discussioni sul Trattato Costituzionale europeo; così come non è casuale che dal diritto derivato dell’Unione, e per la verità dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia U.E., siano venuti, in ultimo, segnali diversi e contraddittori. Evidentemente, l’esito di tutto questo è ancora incerto.
E si è consapevoli anche che questa incertezza alimenta i dubbi che molti ormai nutrono, o meglio hanno continuato a nutrire, sull’utilità effettiva del consegnare per tanta parte la garanzia delle prestazioni sociali, riconvertite in diritti, ai giudici ed alle Corti, rinunciando a scorgere in essa, piuttosto che un problema giuridico difficile da districare, uno dei temi centrali, se non il tema centrale, delle lotte politiche e sociali svolte nel ‘900 e che potrebbero proseguire. Ma su quest’ultimo punto, si può e si deve essere netti. Quanto al porre i diritti sociali tra i diritti costituzionali e fondamentali si può anche essere scettici. E si può avere il massimo di fiducia nella lotta politica e sociale, o nelle virtù compositive della democrazia. La fiducia in queste virtù della lotta politica o del dialogo democratico deve, tuttavia, ancora essere ripagata adeguatamente e, fino a che questo non accadrà, se deve accadere, l’azione delle Corti e dei giudici, nel sottrarre taluni profili delle prestazioni sociali, come giuridicamente dovute, al gioco delle decisioni a maggioranza resta il filo, sottile o robusto che sia, a cui è appesa l’esperienza costituzionale iniziata in Italia sessant’anni addietro.
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