(Relazione al Convegno di studio Esposito, Crisafulli, Paladin. Tre costituzionalisti nella cattedra padovana. La sovranità popolare, Padova, 19-20-21 giugno 2003)
SOMMARIO: 1. La sovranità popolare nel pensiero di Crisafulli ed Esposito – 2. Democrazia rappresentativa, democrazia totalitaria e democrazia integrale – 3. Indipendenza della magistratura, dittatura della maggioranza e “governo dei giudici” – 4. Reciproco appoggio tra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale – 5. Giudici, opinione pubblica e consenso popolare – 6. Sovranità popolare, potere legislativo e limiti dell’interpretazione autentica – 7. Limiti alla discrezionalità interpretativa dei giudici e responsabilità – 8. Sovranità popolare e guarentigie parlamentari – 9. Limiti del potere giudiziario e ideologia politica “neo-totalitaria”.
1. Nel costruire un modello giuridico di rapporti tra Stato e popolo, Vezio Crisafulli osserva, in uno dei suoi saggi più famosi, che la Costituzione italiana del 1948 introduce una vera e propria rappresentanza diretta del secondo da parte del primo, nel senso che lo Stato-soggetto agisce non soltanto per conto del popolo, ma anche nel suo nome.
“La cosiddetta contemplatio domini, ossia la dichiarazione espressa dell’agire per altri, che caratterizzerebbe la rappresentanza stricto sensu, si ritrova, infatti, nella disposizione della seconda parte dell’art. 1 (…). Dalla quale si ricava, precisamente, che la sovranità è e rimane del popolo, e che lo Stato soggetto è dunque soltanto una tra le “forme” (rectius tra i mezzi) in cui essa viene costituzionalmente esercitata. Ciò che può considerarsi sufficiente a concretare il requisito della contemplatio domini, in linea generale, con riferimento, cioè, una volta per tutte, all’intera parte della potestà di governo il cui esercizio è demandato alla persona giuridica statale. Per talune manifestazioni, poi, della sovranità, esistono anche ulteriori più specifiche disposizioni, che ribadiscono tale requisito. Così, per la funzione giurisdizionale, l’art. 101, a termine del quale, ‘la giustizia è amministrata in nome del popolo’; così, indirettamente, per la funzione legislativa, l’art. 67, sistematicamente inquadrato nel complesso delle disposizioni concernenti la formazione della legge (…).[V. CRISAFULLI, La sovranità popolare nella Costituzione italiana (note preliminari) (1954), ripubblicato in Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, p. 143].
Dalle parole di Crisafulli emerge una concezione rigorosamente giuridica del fondamento democratico dello Stato contemporaneo. Tutte le potestà statuali, esplicazioni delle diverse funzioni, emanano da un’unica fonte di legittimazione, al tempo stesso giuridica e politica, il popolo, che si avvale di una pluralità di “mezzi” per esercitare costituzionalmente la propria sovranità. Le funzioni dello Stato non sono altro quindi che forme dell’esercizio della sovranità popolare. Quest’ultima non si coagula in un punto specifico, non si concentra in un soggetto determinato, ma risiede nel popolo, vale a dire nella comunità nazionale, ed acquista sembianza giuridica principalmente per il tramite dello Stato-soggetto nel sue diverse manifestazioni funzionali.
Una prima osservazione nasce spontanea. La rappresentanza giuridica del popolo da parte dello Stato-soggetto poggia su un sottostante rapporto di gestione, in base al quale il rappresentante compie “una serie di operazioni per la realizzazione di uno scopo altrui (…)” [S. PUGLIATTI, Il rapporto di gestione sottostante alla rappresentanza (1929), ora in Studi sulla rappresentanza, Milano, 1965, p. 166]. Gli atti posti in essere dagli organi dello Stato-soggetto sono tutti, a vario titolo, riconducibili agli interessi del popolo, che esercita il suo potere primigenio, avvalendosi di strumenti istituzionali differenziati, per il raggiungimento di scopi propri, che non si possono identificare con quelli di nessun organo dello Stato in particolare e neppure con quelli dello Stato preso nella sua interezza.
Se lo Stato-soggetto, nel suo complesso, è rappresentante del popolo, la fonte da cui origina il rapporto di gestione è la Costituzione, così come la legge tiene luogo, nella figura civilistica della rappresentanza necessaria, del negozio di gestione, da cui invece origina il rapporto rappresentativo nella rappresentanza volontaria.
La necessarietà della rappresentanza non nasce da una situazione di incapacità soggettiva del popolo, ma dall’impossibilità di esercizio diretto di una serie di attività, indispensabili per la conservazione della polis, ma puntuali e ripetitive in maniera tale da escludere radicalmente il loro diretto esercizio. Una di queste è indubbiamente la giurisdizione, che si sostanzia essenzialmente nella composizione delle controversie, nella punizione dei reati ed in tutte quelle altre attività che si ritiene debbano essere esercitate con un alto grado di imparzialità da soggetti dotati di indipendenza rafforzata e garantita.
Prima di entrare nelle problematiche specifiche poste dalla connessione tra giudici e popolo sovrano postulata dagli articoli 1, comma 2, e 101, comma 1, occorre precisare un aspetto di carattere generale e teorico, carico tuttavia di numerose e importanti potenzialità pratiche.
La Costituzione, intesa come fonte della rappresentanza necessaria del popolo da parte dello Stato-soggetto, si pone come prius logico-giuridico sia dello Stato che del popolo stesso. La sovranità popolare implica che tutte le funzioni statuali devono essere esercitate non nell’interesse di una persona giuridica, lo Stato, distinta dal popolo, ma nell’interesse del popolo stesso. Quest’ultimo tuttavia non può mutare il quadro giuridico fondamentale del rapporto rappresentativo, che riposa su una fonte superiore non disponibile dai due soggetti tra cui il rapporto medesimo intercorre.
Di insuperabile chiarezza sono, al riguardo, le parole di Carlo Esposito:
“…la disposizione che il popolo è sovrano nelle forme e nei limiti della Costituzione non significa che la Costituzione sopravvenga per porre limiti estrinseci all’esercizio di una preesistente sovranità del popolo (e che in sostanza la Costituzione neghi la sovranità popolare per affermare la propria), ma proprio all’opposto che la sovranità del popolo esiste solo nei limiti e nelle forme in cui la Costituzione la organizza, la riconosce e la rende possibile, e fin quando sia esercitata nelle forme e nei limiti del diritto. Fuori della Costituzione e del diritto non c’è la sovranità, ma l’arbitrio popolare, non c’è il popolo sovrano, ma la massa con le sue passioni e con la sua debolezza” [C. ESPOSITO,Commento al’art. 1 della Costituzione (1948), ripubblicato in La Costituzione italiana – Saggi, Padova, 1954, p. 11].
Il modello teorico di Crisafulli, visto alla luce della secolare elaborazione civilistica sulla rappresentanza, esprime il principio fondamentale che la sovranità del popolo si esplica nell’ambito della Costituzione. La legge fondamentale non è il prodotto della sovranità popolare, ma la condizione giuridica indispensabile perché l’autorità dello Stato-soggetto non sia più auto-fondata – secondo il modello europeo continentale imperante sino alla metà del XX secolo – ma un modo di attualizzarsi del rapporto di gestione, che vede il “principale” incarnato nella collettività popolare presa nel suo complesso, vera e propria figura giuridica soggettiva, secondo la classica definizione di Carlo Lavagna [Basi per uno studio delle figure giuridiche soggettive contenute nella Costituzione italiana (1953), ripubblicato in Ricerche sul sistema normativo, Milano, 1984, pp. 811 ss.], che ricava la sua giuridicità da una norma costituzionale, senza la quale sarebbe soltanto un dato storico-politico esterno all’ordinamento giuridico.
Stato-soggetto è espressione ellittica per indicare in modo comprensivo i diversi momenti istituzionali in cui, secondo la Costituzione, il popolo è “rappresentato”. Nessun organo e nessun atto esprime la sovranità popolare nella sua pienezza, così come nessun organo e nessun atto concentra tutta la potestà giuridica dello Stato. Per riprendere il parallelo con la rappresentanza privatistica, il rappresentato e il rappresentante sono soggetti che non esauriscono mai tutte le proprie potenzialità giuridiche in singoli atti.
2. Un primo sviluppo del modello crisafulliano della rappresentanza del popolo sovrano da parte dello Stato-soggetto è che la rappresentanza politica in senso stretto si colloca all’interno del processo di formazione del Parlamento essenzialmente con riguardo alla funzione legislativa. L’elezione dei membri del Parlamento da parte del corpo elettorale è una tecnica di raccordo tra organi costituzionali legislativi e popolo e non implica una traslazione di sovranità verso i primi e neppure una delega esclusiva all’esercizio della stessa. La rappresentanza politica presuppone necessariamente l’elezione dei rappresentanti e non può essere sostituita da vecchie forme di rappresentanza “istituzionale”, senza mettere in questione la natura democratica dell’ordinamento costituzionale [Lo ha sottolineato di recente, con buoni argomenti, L. CARLASSARE, Problemi attuali della rappresentanza politica, in Percorsi e vicende attuali della rappresentanza e della responsabilità politica (Atti del Convegno, 16-17 marzo 2000), a cura di N. Zanon e F. Biondi, Milano, 2001, pp. 28 ss.]. Questo canale rappresentativo è però soltanto una delle forme in cui si esprime la sovranità popolare secondo la Costituzione. Esso convive non solo con gli istituti di “democrazia diretta” (referendum, iniziativa popolare etc.), ma con tutte le altre funzioni costituzionalmente previste per il soddisfacimento di altrettanti interessi fondamentali del popolo sovrano.
La famosa distinzione tra rappresentanza e rappresentatività non conduce ad esiti antidemocratici, se non si perde di vista la tensione che deve sempre esistere tra le due situazioni. Anche il più intenso rapporto rappresentativo (quale era quello che si instaurava tra eletti ed elettori nell’epoca del suffragio ristretto) può non soddisfare i requisiti minimi della democraticità propri di un ordinamento in cui la Costituzione pone in diretta corrispondenza la sovranità popolare e lo Stato. La rappresentatività, per acquistare significato, deve essere connessa all’interesse generale [Cfr. T. MARTINES, Diritto costituzionale, X ed., Milano, 2000, p. 219]. Quest’ultimo risulta dalla composizione unitaria di una pluralità di interessi, tutti ugualmente essenziali per la conservazione e lo sviluppo della collettività. Una democrazia pluralista ha bisogno di assemblee rappresentative legittimate dal voto popolare, ma ha pure necessità, ad esempio, di mantenere l’unità nazionale e di garantire ad un tempo i diritti dei cittadini e la legalità dell’azione amministrativa.
Tutte queste esigenze verrebbero travolte, o quanto meno messe seriamente in pericolo, da una “dittatura della maggioranza” nascente dalla preminenza totalizzante della rappresentanza politica su tutte le altre forme di raccordo tra Stato-soggetto e popolo sovrano.
Giova ancora richiamare l’insegnamento di Esposito:
“Niente (…) è tanto inesatto quanto la comune affermazione che in regime democratico la maggioranza è onnipotente (…). (…) una forma di governo democratico esiste solo quando le leggi non neghino agli uomini quella indipendenza, quel valore e che quella dignità da cui traggono valore le leggi; e il popolo sovrano non sia reso schiavo dalle leggi” [C. ESPOSITO, op. cit., 9].
Per restare ai due esempi fatti prima, il Presidente della Repubblica e gli organi di garanzia (Corte costituzionale e giudici comuni) sono destinati ad assicurare la permanenza delle condizioni essenziali perché dalla democrazia “secondo la Costituzione” non si passi alla “democrazia totalitaria”, fondata su un’idea di sovranità popolare logicamente anteriore alla Costituzione e pertanto priva di limiti giuridici. Dalla democrazia rappresentativa degli ordinamenti liberali della seconda metà del XIX secolo e della prima metà del XX si è passati ad una forma di democrazia integrale magistralmente intuita da Crisafulli e da lui tradotta in una formula giuridica ricca di potenzialità ancora in buona parte da dispiegare.
3. Nella costituzione liberale classica l’equilibrio costituzionale si conseguiva e si manteneva nel regimen mixtum, integrazione politico-istituzionale di classi e interessi diversi con istituzioni specifiche di riferimento. L’avvento della democrazia fondata sulla sovranità popolare ha cancellato la diversa origine sociale dei poteri dello Stato ed ha trasferito l’equilibrio costituzionale sul bilanciamento tra interessi “duraturi” e interessi “contingenti”. Tutto il sistema dei checks and balances della Costituzione originaria degli Stati Uniti d’America tende a proteggere i primi contro la prevalenza incontrollata dei secondi. Una maggioranza momentanea potrebbe sovvertire il sistema di tutele da cui la Costituzione stessa trae ragion d’essere ed imporre il proprio interesse contingente su quello generale. Quest’ultimo non può essere inteso come astratto e metafisico interesse indifferenziato di un popolo concepito in modo altrettanto astratto e metafisico, ma come interesse specifico a mantenere e rafforzare le condizioni essenziali di equilibrio tra volontà della maggioranza e garanzia dei diritti fondamentali degli individui e dei gruppi politici e sociali di riferimento.
Nella Costituzione americana originaria questo equilibrio è stato affidato, in ultima istanza, al potere giudiziario. Quest’ultimo deve essere indipendente proprio per evitare la dittatura della maggioranza.
Sono ancora di grande attualità le parole di Alexander Hamilton:
“In regime monarchico, esso [il potere giudiziario] rappresenta un’ottima barriera contro il dispotismo del principe, in regime repubblicano rappresenta una barriera, altrettanto efficace, contro i soprusi e le prepotenze degli organi rappresentativi” [Il Federalista n. 78 (Hamilton), 1788, tr.it. in A. HAMILTON, J. MADISON, J. JAY, Il Federalista, a cura di M. D’Addio e G. Negri, Bologna, 1997, p. 622].
L’indipendenza dei giudici acquista un significato ed un’importanza maggiori in regime di costituzione rigida, in cui sono contenute le garanzie che potrebbero essere travolte da una maggioranza irresistibile:
“Una costituzione rigida richiede in modo particolarissimo che le Corti di giustizia siano indipendenti in modo assoluto: Per costituzione rigida intendo riferirmi a quel tipo di costituzione che prevede delle specifiche limitazioni al potere legislativo quali, ad esempio, che esso non possa deliberare bills of attainder, né leggi ex post facto ed altre consimili” [op. ult. cit., p. 624].
Il senso primigenio delle costituzioni moderne è innanzitutto l’eliminazione del privilegio, sia favorevole che sfavorevole, che si può ottenere non solo con la formazione democratica delle assemblee legislativa, ma anche con la salvaguardia dei diritti fondamentali, senza dei quali la democrazia si trasforma in dittatura, ancorché fornita di investitura popolare. La storia tragica del XX secolo ha confermato in Europa quanto fossero fondate le preoccupazioni dei Framers americani. Né possiamo dire che oggi, in Italia, nel XXI secolo, la politica abbia rinunciato ad identificare il proprio potere momentaneo di maggioranza con i valori e gli interessi che stanno a base del patto costituzionale.
Il problema che nasce dalla limitazione costituzionale del potere della maggioranza e dalla necessità di tutela dei diritti fondamentali nei confronti dei detentori del potere politico è quello, sempre richiamato, ma non sempre coerentemente sviluppato, del possibile “governo dei giudici”, che sarebbe una ulteriore forma di dittatura sostitutiva di quella della maggioranza e persino più pericolosa di essa.
L’espressione, coniata da Lambert all’inizio degli anni ’20 del Novecento, riflette lo sconcerto del giurista europeo continentale di fronte alla possibile ribellione dei giudici alla legge, introdotta negli Stati Uniti d’America con il controllo di costituzionalità delle leggi. Egli vede questa ribellione come segno del naturale conservatorismo di un ceto sociale molto vicino all’oligarchia economica contraria alle riforme sociali. A ben guardare però si può notare che la crociata “sociale” contro la casta dei giudici ostile alle “innovazioni” non è altro che la rivendicazione del primato del legislativo – e quindi del politico – sulla costituzione intesa come higher law. Non si spiega altrimenti la contraddizione logica tra l’accusa di voler impedire l’evoluzione dell’ordinamento verso mete di maggiore giustizia e sicurezza sociale e il contemporaneo rilievo che il controllo di costituzionalità sostituirebbe alle costituzioni rigide, elaborate dalle convenzioni o dalle assemblee costituenti, “costituzioni fatte dai giudici, di un’estrema flessibilità, che il contenzioso costituzionale arricchisce costantemente di nuovi elementi; o, per meglio dire, innesta sulla vecchia costituzione popolare una costituzione giudiziaria, più nuova e più viva, che poco a poco ricopre e soffoca con la sua rigogliosa vegetazione l’opera originaria dei costituenti” [E. LAMBERT, Il governo dei giudici e la lotta contro la legislazione sociale negli Stati Uniti (1921), ed. it. a cura di R. D’Orazio, Milano, 1996, p. 204].
Non si riesce a capire se l’opera dei giudici sia troppo conservatrice perché impedisce od ostacola le innovazioni legislative o se sia troppo innovativa perché sostituisce via via la costituzione statica originaria con una costituzione vivente che si forma anche nel contenzioso giudiziario. Per Lambert la costituzione è accettabile in quanto documento storico e giuridico nei limiti dell’organizzazione strutturale dello Stato (rapporti tra Stato federale e Stati membri). Non è invece compatibile con la sua visione dell’ordinamento una costituzione che si evolve e acquista nuovi significati con il passare del tempo.
Come sappiamo, il dilemma impostato da Lambert ha accompagnato in modo permanente tutta la storia della giustizia costituzionale sia negli Stati Uniti che in Europa e si ripropone al giorno d’oggi in forme diverse, ma tuttavia derivanti da quell’alternativa. Mentre la costituzione “votata” ha un’origine popolare, incarna anzi la sovranità del popolo nel suo massimo grado, l’interpretazione giudiziaria si sovrappone all’intento originario dei costituenti, senza avere la legittimazione popolare di questi.
Nella sostanza, le obiezioni all’evoluzione interpretativa della costituzione non sono altro che un modo di esprimere una diffidenza di fondo verso la stessa idea di costituzione rigida. Se si nega infatti l’istanza del controllo giudiziario, si affida alla discrezionalità del legislatore la continuità giuridica della legge fondamentale. La costituzione resta un corpo storico sempre più lontano nel tempo, che richiede frequenti modiche e aggiustamenti, mutando assetto normativo a seconda delle tendenze politiche prevalenti del momento. La maggiore “rigidità” della costituzione si converte in una maggiore “leggerezza” della stessa, sempre meno operativa e presente nella vita quotidiana dell’ordinamento giuridico e sempre più “imbalsamata” in formule destinate inevitabilmente a perdere capacità applicativa. Per sfuggire ad un incontrollabile governo dei giudici si cade nel relativismo estremo delle ondeggianti maggioranze politiche.
Il problema da risolvere rimane l’equilibrio e l’integrazione tra controllo dinamico della legalità costituzionale e necessaria riserva al potere legislativo dell’innovazione derivante in modo diretto dalla maggioranza politica dei rappresentanti.
4. La difficoltà di risolvere il problema ora delineato era ben presente ai costituenti europei del secondo dopoguerra. La soluzione emersa in Italia, in Germania e successivamente in tutte le altre Costituzioni democratiche contemporanee (con la parziale eccezione della Francia) è stata quella di saldare il controllo di costituzionalità delle leggi, affidato ad una Corte unica, centralizzata e con maggiore incidenza del potere politico nelle nomine dei giudici, con l’attività quotidiana delle giurisdizione. La scelta di una via di mezzo tra controllo diffuso e modello kelseniano ha prodotto una serie di effetti a catena solo in parte prevedibili dai costituenti.
La figura del giudice “introduttore necessario” del giudizio di legittimità costituzionale delle leggi non ha un rilievo soltanto tecnico-procedurale, ma incide in modo rilevante sull’assetto complessivo dei rapporti tra potere giudiziario e potere politico.
Se la Carta costituzionale si fosse limitata al principio fondamentale che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2), sarebbe stato possibile costruire soltanto un sistema di garanzia istituzionale dell’indipendenza della magistratura, per evitare interferenze politiche dirette nell’amministrazione della giustizia, ma i giudici stessi sarebbero rimasti “nudi” di fronte al potere legislativo, costretti ad applicare leggi non censurabili sul piano della legittimità costituzionale o fornite di una iniziale etichetta di legittimità scaturente dal positivo riscontro dell’organo di controllo subito l’approvazione delle assemblee rappresentative. Ciò che avrebbe avuto una prevedibile refluenza sulle stesse garanzie istituzionali di indipendenza, per l’impossibilità di mettere in questione le stesse leggi sull’ordinamento giudiziario.
Non bisognerebbe mai dimenticare che nella costruzione delle garanzie prescelta (pur con sensibili varianti) nelle Costituzioni della seconda metà del XX secolo l’essenziale finalità di tutela si consegue solo se permane un reciproco appoggio tra giurisdizione comune e giurisdizione costituzionale. La scissione tra i due versanti delle garanzie renderebbe la prima “schiava delle leggi” (per riprendere l’espressione di Esposito) e sospingerebbe la seconda a ridosso del potere legislativo.
Anche nel modello europeo di giurisdizione accentrata il ruolo dei giudici comuni tende ad emergere in modo sempre più netto. L’espandersi del peso processuale della c.d. interpretazione adeguatrice segna in questi ultimi anni un processo di avvicinamento tra modello americano e modello europeo. Dall’iniziale semplice “sospetto” di incostituzionalità, ritenuto necessario e sufficiente per sollevare validamente una questione, si è passati all’odierno dovere di ricercare un’interpretazione alternativa a quella che determinerebbe il contrasto con la Costituzione e solo in caso di esito negativo di tale approfondimento ermeneutico rivolgersi alla Corte costituzionale. Tale ricerca preliminare deve essere fatta dal giudice “nell’operare la ricognizione del contenuto normativo della disposizione” [sentenza 24 luglio 1996 n. 307, in Giur. cost., 1996, p. 2545].
Il giudice delle leggi ritiene spesso anche inappropriato l’essere costretto a correggere l’interpretazione del giudice a quo mediante una sentenza interpretativa di rigetto e si orienta a dichiarare inammissibile la questione se il giudice a quo “non solo non prospetta possibili letture alternative della disposizione denunciata, ma si astiene anche dal motivare in ordine alla scelta interpretativa operata” [Ordinanza 23 aprile 1998 n. 147, in Giur .cost., 1998, p. 1138].
Non entro nel merito della problematica specifica posta da questo indirizzo giurisprudenziale, ormai consolidato, della Corte costituzionale. Mi limito ad osservare in questa sede che esso avvalora e ulteriormente conferma l’osservazione diffusa della progressiva convergenza dei modelli di giustizia costituzionale, che avviene all’insegna della centralità del modello americano [Cfr. F. FERNÁNDEZ SEGADO, La justicia constitucional ante el siglo XXI. La progresiva convergencia de los sistemas americano y europeo-kelseniano, Bologna 2003, pp. 65 ss.].
Le dighe innalzate in Europa contro il pericolo del “governo dei giudici”, affidando ad un giudice specialissimo, molto più vicino agli organi rappresentativi politici, tutto il possibile controllo sulle leggi, sono cadute una dopo l’altra. Bisogna valutare con estrema cautela questo processo, che accentua il potere “creativo” dei giudici comuni e potrebbe obbligare i giuristi a complicate spiegazioni per giustificare sentenze interpretative poste in essere da questi ultimi. Si incrementerebbe – per parafrasare Sraffa – la “produzione di sofismi a mezzo di sofismi”.
Per evitare queste secche, bisogna decidersi ad affrontare il problema del rapporto tra natura democratica dell’ordinamento e inevitabile discrezionalità dei giudici.
5. Nell’ultima grande opera teorica della sua vita, Hans Kelsen è costretto ad ammettere che tra la validità della norma generale e la validità della corrispondente norma individuale si deve inserire un atto di volontà, di cui la norma individuale è il senso [H. KELSEN, Teoria generale delle norme (1979), ed. it. a cura di M. G. Losano, Torino, 1985, p. 387]. Il principe del formalismo giuridico arriva così ad una conclusione di netta impronta empiristica: “se sono valide norme giuridiche generali, il cui senso è che devono essere applicate dai tribunali, di solito i tribunali applicano effettivamente queste norme” e quindi “le sentenze giudiziarie non conformi a queste norme generali acquistano validità solo eccezionalmente” [op. ult .cit., p. 405].
Se la difformità tra norma giuridica pre-disposta e decisione del giudice non può essere esclusa in modo assoluto, nonostante i rimedi previsti dai diversi ordinamenti, specie con il sistema delle impugnazioni, si pone un problema di diritto costituzionale sul versante del rapporto tra giudice e popolo titolare della sovranità, proprio perché il giudice esercita una funzione statuale come rappresentante, nel senso chiarito prima, del popolo stesso e, al momento delle decisioni, rinnova solennemente la contemplatio domini.
Si deve escludere una sovrapposizione tra circuito della responsabilità che attiene ai soggetti ed alle sedi della rappresentanza politica e circuito della legittimazione e della responsabilità dei giudici. È stato giustamente osservato che “la democrazia è la giustificazione ultima anche della funzione giurisdizionale, ma quest’ultima non è soggetta, né direttamente né indirettamente, alle regole costituzionali che segnano il circuito democratico, e che prevedono la legittimazione popolare di ogni funzione politica rilevante. Non è il consenso popolare a porsi come misura di legittimazione delle modalità attraverso le quali si esercita la funzione giurisdizionale: ed anzi, si potrebbe dire che tale funzione sta realmente ‘altrove’ rispetto ai luoghi in cui il consenso (ma anche il dissenso) del sovrano democratico si manifesta” [N. ZANON – F. BIONDI, Diritto costituzionale dell’ordine giudiziario. Status e funzioni dei magistrati alla luce dei principi e della giurisprudenza costituzionali, Milano, 2002, p. 178].
L’azione della magistratura deve essere insensibile alle manifestazioni di consenso o di dissenso, anche se i giudici non operano in un vuoto politico e sociale ed è inevitabile che le loro iniziative e le loro decisioni abbiano conseguenze politiche anche di forte entità. Due esempi di storia recente e di cronaca contemporanea avvalorano questo assunto.
Nella prima metà degli anni ’90 si svilupparono le inchieste giudiziarie che andarono sotto l’etichetta di “mani pulite”. Attorno agli atti dei magistrati impegnati nelle indagini si creò un vasto movimento di opinione a loro favorevole e aspramente critico per la classe politica del tempo. Consensi e dissensi furono molto vivaci ed ancor oggi si continuano ad alimentare le polemiche sul giudizio da dare su quel periodo. Al di là dei diversi punti di vista possibili in merito, mi sembra da ribadire che i giudici rappresentano il popolo nell’esercizio della funzione essenziale di far rispettare le norme giuridiche e non sono assoggettati o assoggettabili a vincoli di contenuto né possono essere influenzati dalle conseguenze politiche, economiche, sociali o di altro genere che derivano o possono derivare dai loro atti. I giudici sono uomini di regole non di fini e le regole devono applicare, anche se qualcuno addita loro veri o presunti effetti negativi ulteriori dei loro provvedimenti.
Bisogna quindi distinguere la politicità intrinseca degli atti dei giudici – nel senso del loro inserimento in un preciso “indirizzo politico”, in ipotesi diverso e configgente con quello di Governo e Parlamento – e gli effetti politici dei processi giudiziari, che non possono e non devono essere previsti e valutati. Con scettico realismo, è stato osservato che “non dipende certamente dai magistrati (…) se l’opinione pubblica ha dato loro il tipo di adesione proprio di una folla avida di linciaggi e, ancor più, se nessuno è riuscito a cogliere questa occasione [“mani pulite”] per avviare una fase nuova della vita nazionale” [A. PIZZORUSSO, La Costituzione. I valori da conservare, le regole da cambiare, Torino, 1996, p. 39]. Ai giudici si rimprovera spesso di fare troppo o troppo poco rispetto alle aspettative di impunità di taluni, o, al contrario, di affossamento giudiziario dell’avversario politico da parte di altri. Capita non di rado che gli stessi giornali che deprecano il “giustizialismo” lancino grida di giubilo quando le inchieste giudiziarie toccano uomini e partiti sgraditi e che, al contrario, giornali molto inclini a sostenere l’azione “moralizzatrice” della magistratura diventino improvvisamente “garantisti” quando qualche indagine va in una direzione non coerente con preconcette condanne o assoluzioni di interi schieramenti politici.
I processi vengono anticipati, accompagnati, mimati e commentati sui media in modo del tutto incontrollato, dimentichi o incuranti che le indagini ed i dibattimenti mediatici sono la negazione più grossolana di qualunque garanzia. Ha detto un giudice francese: “Non esiste parità di armi nei media, che offrono la ribalta a chi racconta la storia migliore, nel modo migliore. Rafforzano l’effetto della utilizzazione di verità a scapito della verità, la seduzione a scapito dell’argomentazione” [A. GARAPON, I custodi dei diritti. Giustizia e democrazia (1996), tr. it. a cura di A. Cremagnani, Milano, 1997, p. 63]. Basta pensare all’indecente spettacolo che hanno offerto giornali e reti televisive a proposito del “delitto di Cogne” (e si tratta solo di uno tra i tanti casi) per rendersi conto che anche in Italia il problema ha assunto dimensioni patologiche.
L’influsso dell’opinione pubblica sul comportamento dei giudici può essere positivo ed anzi auspicabile, se inteso come stimolo perché gli stessi non indulgano ad iniziative apertamente faziose o stravaganti. Il timore di perdere la propria legittimazione può essere un argine a scorrettezze politicamente orientate, sia nel senso dell’azione che in quello dell’omissione. La ricerca del consenso non può e non deve tuttavia porre remore eccessive alla coraggiosa elaborazione di principi non immediatamente percepiti dalla maggioranza dei cittadini. Un grande giurista liberale inglese ha detto circa un secolo addietro: “È del tutto possibile che le idee dei giudici sull’utilità e sull’interesse pubblico possano talvolta elevarsi al di sopra di quelle prevalenti in una determinata epoca” [A. V. DICEY, Diritto e opinione pubblica nell’Inghilterra dell’Ottocento (1905), ed. it. a cura di M. Barberis, Bologna, 1997, p. 364].
Escluso dunque che i giudici debbano seguire o, peggio, inseguire il favore dell’opinione pubblica, non si può tuttavia ignorare, come si accennava prima, che la produzione giudiziale di diritto pone certamente, specie in un ordinamento di civil law un problema costituzionale di connessione del potere giudiziario con la rappresentanza democratica dalla quale promana la legge cui il giudice è soggetto (art. 101, comma 2 della Costituzione italiana).
6. Il punto di partenza è il rifiuto della dottrina cognitiva dell’interpretazione, da cui deriva l’esigenza di assoggettare il potere giudiziario a controlli “esterni”, come tutti gli altri poteri dello Stato. Non sembra tuttavia che la norma costituzionale che assoggetta i giudici soltanto alla legge implichi come conseguenza necessaria che siano gli organi titolari del potere legislativo a dover operare tali controlli [Così invece R. GUASTINI, Il giudice e la legge, Torino, 1995, p. 100]. Non si può certo pensare ad interventi del potere legislativo nel processo di formazione dell’interpretazione giudiziaria, sia per ragioni di principio che per ragioni pratiche, le stesse che indussero ben presto in Francia ad abbandonare la procedura del référé legislatif.
Problemi delicati pongono le leggi di interpretazione autentica. Tradizionalmente si riconosce a queste leggi efficacia retroattiva; tale “naturale” effetto delle leggi interpretative è tuttora ammesso dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale ha sempre ribadito “che l’intervento legislativo retroattivo, tanto con norma di interpretazione autentica quanto con norma innovativa, opera sul piano delle fonti, ossia della regula juris che il giudice deve applicare, e quindi non incide sulla potestà di giudicare e sull’ambito riservato alla funzione giurisdizionale” [Sent. 23 luglio 2002 n. 374, in Giur. cost., 2002, pp. 2782 s.]. Quando però la legge interpretativa pretende di incidere sui giudicati, essa non si limita più ad operare sul piano delle fonti, ma produce la “lesione dei principi relativi ai rapporti tra potere legislativo e potere giurisdizionale, nonché delle disposizioni relative alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi” [Sent. 27 luglio 2000 n. 374, in Giur. cost., 2000, p. 2660].
Nella seconda delle sentenze citate si istituisce un legame molto interessante tra invasione della sfera di competenze del potere giudiziario e tutela delle situazioni giuridiche soggettive. Il travolgimento del giudicato non implica soltanto una illegittima interferenza nel campo riservato alla giurisdizione, ma contemporaneamente lede diritti e interessi legittimi dei cittadini consolidati in base ad una pronuncia del giudice.
Nel porre a raffronto la giurisprudenza della Corte costituzionale italiana con quella, sullo stesso tema, del Bundesverfassungsgericht, Livio Paladin osserva che l’effetto retroattivo, o iper-retroattivo, delle leggi interpretative – quando queste assumono la veste surrettizia di norme di interpretazione autentica – viola il principio della certezza del diritto, in quanto travolge la cosa giudicata e scalza il principio tempus regit actum [L. PALADIN, Le fonti del diritto italiano, Bologna, 1996, pp. 186 s.].
Su questa osservazione possiamo innestare un ulteriore svolgimento sui rapporti tra potere legislativo e potere giudiziario, visti attraverso la lente dei diritti dei cittadini. L’intangibilità del giudicato è posta a garanzia dei titolari dei diritti prima che degli organi giudiziari. Mentre una interpretazione autentica che opera esclusivamente de futuro è soltanto un normale esercizio della potestà legislativa, la retroattività della stessa deve essere lasciata alla valutazione del giudice quanto alla incidenza sui processi in corso. La legge interpretativa deve essere “ragionevole” [Cfr. A. GARDINO CARLI, Corte costituzionale e leggi interpretative: tra un controverso passato ed un imprevedibile futuro, in Le leggi di interpretazione autentica tra Corte costituzionale e legislatore (Atti del Seminario di Roma del 5 ottobre 2000), a cura di A, Anzon, Torino, 2001, pp. 25 ss.], nel senso che deve intervenire solo in presenza di gravi controversie interpretative ed in assenza di un diritto vivente consolidato. Altrimenti diventa una usurpazione del potere interpretativo dei giudici e della conseguente funzione nomofilattica della Corte di cassazione. Le Corti supreme, non più “ancelle” del legislatore, tendono a trasformarsi da giudici della legalità in giudici dei diritti [Cfr, F. G. PIZZETTI, Il giudice nell’ordinamento complesso, Milano, 2003, pp. 225 ss.]
È stato prospettato, con abbondanza di argomenti, un possibile conflitto di attribuzione tra potere giudiziario e legislativo avente ad oggetto una legge interpretativa retroattiva [Cfr. A. PUGIOTTO, La legge interpretativa e i suoi giudici. Strategie argomentative e rimedi giurisdizionali, Milano, 2003, pp. 401 ss.]. Per ragioni di brevità e di aderenza al tema trattato, non entro nel merito tecnico-processuale della proposta. Mi limito ad esprimere qualche dubbio che la Corte si decida a cambiare indirizzo giurisprudenziale per il semplice mutamento del tipo di giudizio, giacché, nella sostanza, il problema rimarrebbe invariato.
La controversia sui limiti di ammissibilità delle leggi interpretative affonda le sue radici nel problema di fondo dei rapporti tra funzione giudiziaria e sovranità popolare. Giova ancora una volta richiamare l’insegnamento di Esposito e Crisafulli.
Se lo Stato – tutto lo Stato e non solo il Parlamento – rappresenta il popolo sovrano (Crisafulli) e se quest’ultimo lo è veramente se viene riconosciuta la dignità di ogni cittadino ed il rispetto dei suoi diritti (Esposito), si deve concludere che non può essere rimesso all’arbitrio del legislatore “cambiare le carte in tavola”, cancellando diritti acquisiti e tradendo l’aspettativa tutelata che lo Stato faccia onore alle proprie stesse leggi quali legittimamente interpretate dai giudici. La certezza del diritto, cui si riferisce Paladin, è il corollario indispensabile sia del principio, affermato da Esposito, che il popolo sovrano non può essere reso schiavo dalle leggi, sia del principio, affermato da Crisafulli, che in ogni momento di esercizio del potere statuale si deve tener conto della essenziale rappresentanza del popolo.
I giudici rappresentano il popolo nella fondamentale istanza della oggettivizzazione della legge che, dopo la definitiva approvazione, si distacca dai suoi autori e non riflette più la maggioranza transeunte che l’ha votata, ma la volontà complessiva del potere legislativo. D’altra parte, ammettere un incondizionato effetto retroattivo delle leggi interpretative significherebbe assoggettare i cittadini ai capricci di mutevoli maggioranze parlamentari. Ben potrebbe accadere che una maggioranza voglia incidere su diritti concessi da una maggioranza precedente e diversa con leggi aventi efficacia ex tunc in una continua destabilizzazione che renderebbe davvero il popolo schiavo del legislatore e cioè il contrario di sovrano.
La funzione giudiziaria deve tutelare un sistema altamente differenziato di selezione e di decisione, mettendolo al riparo degli influssi diretti e semplificatori della politica dei partiti [Cfr. N. LUHMANN, Funktionen und Folgen der Rechtsprechung im politischen System, in Politische Planung, Opladen, 1975, pp. 49 s.]. Il popolo è veramente sovrano se può pretendere che leggi costituzionalmente legittime siano applicate dai giudici secondo il normale criterio cronologico e che le eccezioni a tale criterio siano frutto di situazioni eccezionali richiamate in modo esplicito con una precisa dichiarazione di retroattività, che implica anche una assunzione di responsabilità.
Un’ultima considerazione. La manipolazione del principio tempus regit actum contiene in nuce l’idea che il popolo sovrano possa, per il tramite della rappresentanza politica, influire su procedimenti giudiziari in corso con vari mezzi: mutamento di fattispecie penali, introduzione di rilevanti eccezioni al principio del giudice naturale, espansione delle immunità parlamentari e quant’altro la fantasia giuridica può trovare. Si tratta di interventi legislativi da valutare approfonditamente caso per caso. In linea generale, sembra di poter dire che nelle prerogative di sovranità del popolo rientra la pretesa a veder applicate le leggi senza possibilità artificiose di elusione, che avvantaggerebbero pochi e lederebbero le basi essenziali dello Stato di diritto. Quest’ultimo non è un possibile modo di organizzazione dei pubblici poteri, ma l’espressione più pregnante della democrazia liberale su cui poggia la visione espositiana e crisafulliana della sovranità popolare.
Per fare un solo esempio, tra i tanti possibili, la legge 7 novembre 2002 n. 248 (c.d. legge Cirami), esplicitamente motivata dai suoi sostenitori con il proposito di sottrarre alcuni imputati eccellenti alla cognizione dei giudici del Distretto di Milano – ove non vi sarebbe la serenità necessaria per giudicare in modo imparziale quegli stessi imputati – viene oggi invocata con frequenza in processi di mafia. In un caso estremo è stata prospettata dalla difesa dell’imputato la sua applicazione in un processo per diffamazione perché il querelante, titolare di una carica pubblica, era stato invitato all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Se la peggiore ingiustizia è la tardiva giustizia, gli effetti ritardatori a valanga introdotti da alcune nuove leggi possono giovare a pochi e danneggiare molti (parti lese, coimputati desiderosi di dimostrare la propria innocenza, intere comunità devastate dalla criminalità organizzata), senza aggiungere nulla al diritto di difesa tutelato dalla Costituzione.
7. Resta da precisare in che misura la discrezionalità del giudice può esplicarsi in uno spazio non coperto da responsabilità. Tralascio volutamente il problema della responsabilità penale (che non conosce differenze tra giudici e comuni cittadini) e quello della responsabilità civile (che non attiene ai rapporti tra giudici e sovranità popolare) e mi limito a qualche veloce osservazione su due punti: a) il possibile arbitrio interpretativo dei giudici; b) la sanzione dei comportamenti deontologicamente riprovevoli degli stessi.
7.1 Quanto al primo problema, mi sembra condivisibile l’osservazione che potere legislativo, potere esecutivo e potere giudiziario devono svolgere la loro funzioni nell’ambito del nucleo centrale dei valori costituzionali, “evitando avventure ai margini” [A. BARAK, La discrezionalità del giudice (1989), tr. it. di I. Mattei, Milano, 1995, p. 196]. Le interpretazioni eccentriche delle leggi da parte dei giudici, l’approvazione di leggi pericolosamente ai bordi della legittimità costituzionale, le interferenze ministeriali nella giurisdizione sono solo alcuni dei fenomeni degenerativi che nascono da forzature del proprio ruolo poste in essere da organi appartenenti a diversi poteri dello Stato. Gli strumenti correttivi e stabilizzatori previsti dall’ordinamento (potere di rinvio delle leggi del Presidente della Repubblica, conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato) sono di grande utilità e, in molti casi, indispensabili. Non raggiungerebbero però i risultati attesi se i comportamenti anomali si moltiplicassero ulteriormente, come sembra essere la tendenza dell’attuale momento storico-politico. Un Capo dello Stato costretto a rinviare un gran numero di leggi alle Camere, una Corte costituzionale costretta a rimettere frequentemente nel loro alveo sia il potere giudiziario che quello legislativo finirebbero per consumare la propria credibilità e la propria legittimazione, se dopo la soluzione di un caso, se ne presentasse continuamente ed immediatamente un altro.
Oggi è quanto si verifica con i moniti alla moderazione ed alla correttezza costituzionale del Presidente Ciampi, che vengono invariabilmente seguiti da manifestazioni di piena adesione da tutte le parti e di altrettanto completa preterizione da parte di chi vuole mantenere un clima incandescente nei rapporti istituzionali.
Peraltro la perpetuazione di un clima di rivincita della classe politica verso la magistratura rende più difficili riforme, come quella dell’ordinamento giudiziario, che aspettano da oltre cinquant’anni e sono costituzionalmente necessarie, secondo quanto dispone l’art. VII, comma 1, della Disposizioni transitorie e finali. Sarebbe saggia decisione aspettare tempi più sereni [Cfr. in questo senso A. PIZZORNO, Il potere dei giudici. Stato democratico e controllo della virtù, Roma-Bari, 1998, p. 91. Dalla data di pubblicazione di questo libro la situazione è ulteriormente peggiorata]. Solo in tal modo si potrebbero affrontare gli interessi “duraturi” dei cittadini sottostanti alla giurisdizione ed all’ordinamento giudiziario. In caso contrario, si identificherebbe la sovranità popolare con necessità contingenti di singoli o di gruppi, sorretti da maggioranze parlamentari altrettanto contingenti. Forse sarebbe utile che coloro che detengono la maggioranza pensassero più spesso alla possibilità, realistica in un ordinamento democratico, di diventare minoranza e di aver bisogno domani di quelle garanzie di indipendenza dei giudici dal potere politico che si pensa allegramente di cancellare oggi.
7.2 La responsabilità disciplinare dei magistrati rappresenta uno dei punti di confluenza tra principio democratico (art. 101, comma 1) e principio di indipendenza (art. 104, comma 2). L’iniziativa dell’azione disciplinare è infatti attribuita al Ministro della giustizia, che diventa così organo di raccordo non solo tra ordine giudiziario e Governo, ma, più in generale, tra potere giudiziario e rappresentanza politica (posta la responsabilità politica del Governo verso il Parlamento).
La decisione è attribuita al Consiglio superiore della magistratura, che nella sua Sezione disciplinare riflette la propria composizione mista. Essa è composta infatti di sei membri, di cui due “laici”, scelti tra i consiglieri eletti dal Parlamento, tra cui il Vice-presidente, che presiede la Sezione, e quattro “togati”, scelti tra i consiglieri eletti dai magistrati.
È interessante notare che la presenza “esterna”, espressione della rappresentanza politica, si rinviene sia nella fase dell’iniziativa del procedimento disciplinare che in quella della decisione. Lo stesso procedimento non è più configurabile come autocorrezione interna del corpo dei magistrati, ma ha acquistato ormai natura pubblica e giurisdizionale, in coerenza con l’esigenza di inquadrarlo nella garanzia generale di tutela dell’indipendenza e dell’imparzialità della funzione giudiziaria, sottraendolo alla disciplina interna dell’ordine. Proprio perché la giustizia è amministrata in nome del popolo, la repressione dei comportamenti illeciti dei magistrati, a parte i profili penali e civili, deve essere effettuata con un procedimento di natura prettamente giurisdizionale con le forme di pubblicità tipiche del processo. Il procedimento disciplinare dei magistrati è quindi “strutturalmente e funzionalmente diverso da quello previsto per gli impiegati civili dello Stato” [Sent. 22 giugno 1992 n. 289, in Giur. cost., 1992, p. 2196]. Interest rei publicae la sanzione della condotta illecita dei magistrati, proprio perché il collegamento con il popolo della loro funzione è reso immediato ed evidente dalla stessa Costituzione.
Un altro aspetto appare degno di nota. La presenza “esterna” nel procedimento disciplinare lo differenzia da altre, importanti categorie di soggetti. Ad esempio, sia gli avvocati che i professori universitari sono assoggettati ad una giurisdizione disciplinare del tutto “corporativa”, senza presenze esterne.
8. Può accadere che le funzioni giudiziarie investano singolarmente i “rappresentanti del popolo”. Recependo un’antica tradizione, la Costituzione italiana contiene una deroga al principio di eguaglianza che rende i parlamentari irresponsabili per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni e richiede un’autorizzazione per qualsiasi restrizione della libertà personale, di domicilio e di corrispondenza a carico dei parlamentari medesimi (art. 68, dopo la riforma del 1993).
La dottrina e la giurisprudenza costituzionale sono concordi nel ritenere che non si tratta di privilegi personali, ma di garanzie della funzione [Cfr. per tutti G. ZAGREBELSKY, Le immunità parlamentari. Natura e limiti di una garanzia costituzionale, Torino, 1979, pp. 39 ss]. L’integrità della rappresentanza politica, direttamente connessa alla sovranità popolare, richiede che i membri del Parlamento possano svolgere le loro funzioni in assoluta libertà, senza temere conseguenze negative dall’espressione delle proprie opinioni o dei propri voti. Allo stesso modo si deve circondare di particolari cautele la restrizione della libertà personale, di domicilio e di corrispondenza del parlamentare perché tale restrizione avrebbe conseguenze dirette sull’assolvimento del mandato parlamentare che, a norma dell’art. 67 Cost., viene svolto in nome e per conto dell’intero popolo sovrano e non soltanto degli elettori che hanno dato il loro voto al singolo membro del Parlamento.
La recente giurisprudenza della Corte costituzionale ha circoscritto in modo significativo la possibilità di sottrarre alla normale responsabilità giuridica i parlamentari per opinioni espresse al di fuori dell’esercizio delle loro funzioni. Le ormai famose sentenze n. 10, 11, e 56 del 2000 hanno sostanzialmente superato il criterio del “nesso funzionale” [Cfr. C. MARTINELLI, L’insindacabilità parlamentare. Teoria e prassi di una prerogativa costituzionale, Milano, 2002, pp. 180 ss.], per approdare al più rigoroso criterio dell’identità sostanziale di contenuto tra l’opinione espressa in sede parlamentare e quella manifestata in sede esterna.
Questo recente indirizzo giurisprudenziale della Corte sembra aderire perfettamente ad una concezione equilibrata del rapporto delle assemblee rappresentative da una parte e della magistratura dall’altra con la sovranità popolare. La rappresentanza politica si basa sul principio di maggioranza sul presupposto che i cittadini siano eguali davanti alla legge. In caso contrario, il principio di maggioranza verrebbe privato della sua unica base razionale. Per questo motivo ogni deroga al principio di eguaglianza deve trovare fondamento in un valore costituzionale coerente al miglior esercizio della sovranità popolare, che appare inscindibile dall’eguaglianza. Solo l’esigenza di non menomare le funzioni parlamentari può giustificare la sottrazione degli atti di persone determinate al diritto comune delle responsabilità. Ogni estensione oltre i limiti di una stretta interpretazione della guarentigia parlamentare del free speach introdurrebbe un grave squilibrio nella vita politica nazionale, alla quale tutti i cittadini hanno il diritto di partecipare in condizioni uguali (art. 49 Cost.). L’estensione dell’insindacabilità produrrebbe un surplus di libertà politica per taluni soggetti all’interno della società civile, senza una stretta necessità di salvaguardare il Parlamento come istituzione.
Lo stesso ragionamento deve farsi per garanzie processuali (sospensione dei processi) disposte, per particolari cariche dello Stato, con legge ordinaria e per di più estendentesi “a fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione”, come recita l’art. 1, comma 1, del d.d.l. n. 2191, approvato dal Senato il 5 giugno 2003. La legge ordinaria, attuativa dell’art. 68 Cost., avrebbe un senso se si trattasse di privilegi connaturati alla carica e non di garanzie funzionali espressamente poste per una deliberata scelta di rottura della Costituzione assunta da una fonte di rango costituzionale. Se si potesse parlare di garanzie connaturate, la legge ordinaria sarebbe solo esplicativa di un principio immanente nella Costituzione. Ciò è smentito per tabulas dalla presenza nella stessa Carta costituzionale di un’altra disposizione, l’art. 96, cui si collega la legge costituzionale n. 1 del 1989, che non introduce il principio di sospensione automatica dei processi, ma solo una diversa procedura per sottoporre il Presidente del Consiglio ed i Ministri alla giurisdizione ordinaria per i reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
In definitiva, la sovranità popolare presuppone l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge. La giurisdizione esprime nel più alto grado il principio di parità di trattamento dei cittadini in situazioni uguali (in tutte le aule di giustizia è scritto che la legge è uguale per tutti), mentre un diverso trattamento può essere ammissibile solo in presenza di altri valori costituzionali ugualmente meritevoli di tutela. Solo la Costituzione o una legge costituzionale potrebbero introdurre pertanto differenziazioni di disciplina processuale per determinati soggetti. Con una avvertenza: la stessa legge costituzionale non può infirmare alle basi l’ordinamento costituzionale, introducendo regole incompatibili con il corretto esercizio della sovranità popolare. Tale sarebbe il caso di una disciplina che non consentisse le attività investigative e processuali indispensabili per evitare la dispersione delle prove. Se ciò avvenisse, non si potrebbe certo parlare di una garanzia funzionale, ma di una sostanziale esenzione, anche per il futuro, dalla responsabilità penale.
9. Molti lamentano che le funzioni del potere giudiziario si espandono negli ordinamenti contemporanei oltre i limiti della semplice applicazione delle norme giuridiche ai casi concreti. Riemergono periodicamente severi richiami a ricondurre i giudici alla loro funzione di “bouche de la loi”, secondo la celeberrima definizione di Montesquieu. Uno degli argomenti più suggestivi è quello che si riallaccia alla onnipotenza della sovranità popolare, che ricaccia in un angolo ogni altro principio costituzionale. Tende a diffondersi una strana e micidiale mistura di liberismo economico estremo, giacobinismo istituzionale e stalinismo politico. La potremmo chiamare ideologia neo-totalitaria. Tutte le norme “sociali” della Costituzione vengono presentate come datate e frutto dell’illusione comunista dissoltasi nel crollo delle dittature dell’Est europeo. La maggioranza parlamentare detiene ogni potere e non deve incontrare remore sul suo cammino. La leadership personale del capo non tollera contraddittori, che devono essere neutralizzati e bollati come “comunisti” (immagine speculare dei “nemici del popolo” di sovietica memoria).
In questo quadro non c’è posto per il sistema di autonomie, di garanzie e di equilibri disegnato dalla Costituzione. La volontà sovrana del popolo è per sua natura irresistibile e si identifica con la volontà della maggioranza parlamentare. Ogni resistenza è vista con sospetto, quasi si trattasse di deliberato sabotaggio alla volontà popolare. I giudici non devono amministrare giustizia in nome del popolo in conformità alla legge, ma in nome della maggioranza politica del momento, se necessario anche in difformità alla legge. Anche in qualche settore dell’attuale minoranza politica sono stati espressi nel recente passato orientamenti similari, con l’inebriante leggerezza che dà talvolta il potere a chi non ci è abituato.
Non resta che augurarsi che la classe politica italiana sappia distaccarsi da rinnovate tentazioni di “democrazia totalitaria” e ritornare ai “grigi” principi della democrazia liberale pluralista, che non consente slanci eccessivi, ma garantisce l’implementazione graduale dei diritti e dell’eguaglianza, con percorsi che possono apparire talvolta tortuosi e contraddittori, ma sono comunque preferibili alle strade troppo diritte che puntano verso l’abisso.