Dopo una lunga e travagliata gestazione le forze politiche di maggioranza hanno presentato il 29 maggio un emendamento al disegno di legge di attuazione dell’art. 68 Costituzione, che appare del tutto eterodosso rispetto alla ratio della legge in discussione. Infatti, come è ben noto, le proposte avanzate dalla maggioranza, in questo caso, non hanno a che vedere con la regolamentazione dell’istituto della immunità, bensì riguardano la tutt’affatto diversa questione della sospensione dei processi penali a carico (non dei parlamentari, bensì) delle più alte cariche dello Stato.
In questa sede si vogliono esporre solo alcuni rilievi relativi a profili di costituzionalità, omettendo ogni ulteriore considerazione sul merito dell’atto presentato al Senato. Argomenti di carattere procedurale, sistematico e formale, su una materia particolarmente delicata poiché rivelatrice della concezione complessiva dei poteri regolati in Costituzione.
In primo luogo, non sembra possibile adottare una misura quale la sospensione dei processi per soggetti dell’ordinamento (quali che essi siano, anche le più alte cariche dello Stato) con lo strumento della legge ordinaria (o altro atto avente la medesima forza normativa). Intanto per la evidente ragione – da più parti opportunamente rilevata – che in tal modo s’introduce una disparità di trattamento lesiva del principio di eguaglianza tra cittadini nella materia particolarmente delicata dell’accertamento della responsabilità penale individuale. Inoltre, si deve considerare che la misura della sospensione dei processi ha come esplicita finalità quella di impedire l’ordinario (e costituzionalmente imposto) esercizio della funzione giurisdizionale, venendo infatti a limitare l’esercizio dell’azione penale, che ai sensi dall’art. 112 è invece obbligatoriamente imposta ai pubblici ministeri.
La sospensione sacrifica poi fortemente le parti lese. Le diverse controparti processuali, che non sono rappresentate solo dallo Stato, nella sua veste di garante della giustizia e titolare della funzione repressiva, ma sono anche i soggetti privati che dai presunti comportamenti illeciti hanno subito danni. La sospensione impedirebbe di accertare le ragioni o i torti, per un lasso di tempo sostanzialmente indeterminato. Difficile negare almeno il contrasto con l’art. 24, nella parte che garantisce la possibilità di agire in giudizio (ora e non in un futuro imprecisato) per la tutela dei propri diritti.
Ma il contrasto con l’art. 24 può essere rilevato anche con riferimento al diritto di difesa inteso in senso stretto: nel corso del processo e in ogni stato e grado del procedimento. Senza qui addentrarsi nella delicata questione della sorte processuale degli eventuali soggetti coinvolti negli accertamenti e nelle indagini della magistratura inquirente sui fatti imputati alle alte cariche, si vuole solo sottolineare che il diritto di difesa (di tutti gli attori processuali, siano essi gli eventuali coimputati o le parti lese) verrebbe fortemente compresso se non impedito. Più in generale può affermarsi che con la sospensione dei processi per alcuni determinati soggetti viene ad essere posto in discussione il principio generale della tutela giurisdizionale che, come recita l’art. 113, “non può essere esclusa o limitata”. Quanto basta per ritenere che introdurre per via ordinaria la misura della sospensione dei processi per le più alte cariche dello Stato risulterebbe gravemente lesiva della legalità costituzionale.
Potrebbe attuarsi invece con lo strumento della legge di revisione costituzionale?
In questa sede – non volendo scendere a discutere il “merito costituzionale” della proposta – si possono avanzare due collegate considerazioni. La prima, di carattere generale, riguarda il tono che assumerebbe una modifica costituzionale che introducesse la sospensione dei processi per le più alte cariche dello Stato. E’ l’equilibrio tra i poteri che andrebbe ad essere toccato, cioè uno dei modi d’essere della nostra attuale democrazia costituzionale. Il carattere simbolico, la plusvalenza ideologica di una misura che va ad incidere sui rapporti tra funzione giurisdizionale ed autonomia degli altri poteri non possono essere sottovalutati. Oltre agli effetti diretti – già di per sé di notevole rilievo – che riguardano i pochi soggetti cui si apprestano garanzie specifiche (la sospensione dei processi), verrebbe coinvolto l’assetto complessivo dei poteri nel nostro sistema costituzionale. Non si sta dunque discutendo di una modifica costituzionale specifica e di scarso rilievo.
La seconda conseguente considerazione vuole segnalare la novità sistematica della misura che si vorrebbe introdurre in Costituzione, almeno se riproduttiva di quella che è stata presentata in questi giorni al Parlamento come emendamento ad un disegno di legge ordinario. Ricordiamo – secondo la proposta attualmente in discussione – i due elementi che dovrebbero caratterizzare la sospensione dei processi: i fatti per i quali non si potrebbe più procedere per via giurisdizionale fino alla cessazione dalla titolarità dell’alta carica ricoperta dell’indagato a) non riguarderebbero quelli compiuti nell’esercizio delle funzioni; b) non si limiterebbe all’attività (anche non funzionale) posta in essere durante il periodo del mandato.
La sospensione processuale concernerebbe invece “qualsiasi [ipotesi di] reato anche riguardante fatti antecedenti l’assunzione della carica o della funzione” (così si esprime l’emendamento al disegno di legge di attuazione dell’art. 68 presentato al Senato). E’ questa un’impostazione indubbiamente innovativa rispetto alla tradizione delle prerogative costituzionali; le quali – dai tempi della trasformazione degli Stati assoluti fino ad oggi – hanno sì teso a garantire l’autonomia degli organi costituzionali e dei soggetti che pro tempore rivestivano gli specifici incarichi politici, ma sempre distinguendo tra prerogativa data all’attività svolta nell’esercizio delle funzioni e l’attività extrafunzionale, ed a maggior ragione tra i fatti compiuti durante il mandato e quelli necessariamente privati, compiuti prima dell’assunzione della carica pubblica. E’ anche facile comprendere la ragione (il valore sotteso, verrebbe da dire) che ha indotto la storia costituzionale a operare queste distinzioni: si voleva (e si vuole ancora nel nostro attuale sistema costituzionale) escludere che le prerogative potessero essere ricondotte alla diversa categoria dei privilegi, poiché in democrazia questi ultimi non sono ammessi.
Questo disegno è chiaramente riflesso nella nostra Costituzione, e coerentemente perseguito, infatti ogni volta che essa affronta la questione delle garanzie per gli organi costituzionali opera le dovute distinzioni. Nel caso del Presidente della Repubblica, nei confronti del quale – in considerazione del suo particolare ruolo costituzionale – stabilisce la più estesa garanzia di autonomia: all’art. 90 si sanziona una sostanziale irresponsabilità generalizzata (salvo i casi estremi di alto tradimento e attentato alla Costituzione), ma pur sempre limitata agli atti “compiuti nell’esercizio delle sue funzioni”. Prerogative che non possono più farsi valere cessata la carica. In fondo, un’implicita conferma è rinvenibile nella vicenda in corso di svolgimento dinanzi alla Corte costituzionale, che vede un ex presidente della Repubblica (Cossiga) ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri per tutelare le prerogative presidenziali dopo la conclusione del mandato. In questo caso, già in sede di ammissibilità del conflitto (vedi l’ord. n. 455 del 2003), la Corte ha sottolineato “i complessi problemi costituzionali” che solleva la mera pretesa di una perpetuatio legitimationis. “Complessi problemi costituzionali” che sorgono in un caso in realtà ben più “semplice” rispetto a quello che verrebbe a realizzarsi con la sospensione dei processi. Infatti, il dubbio che la Corte è chiamata a risolvere riguarda solo la legittimazione dell’ex Presidente ad un conflitto tra poteri dinanzi alla Corte costituzionale, al fine di far valere la prerogativa che si sarebbe potuta invocare dopo ed eventualmente, nell’ipotesi di una pronuncia favorevole della Corte stessa, nel corso del processo instaurato dinanzi all’autorità giudiziaria: dunque una fattispecie che non pretendeva di estendere direttamente oltre il tempo circoscritto dal mandato, una prerogativa presidenziale.
Nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, nonché dei ministri, la Costituzione prevede una diversa prerogativa a difesa della funzione svolta: l’autorizzazione delle Camere affinché la giurisdizione ordinaria possa procedere secondo quanto stabilisce una legge costituzionale ad hoc. In questo caso la Costituzione prevede che la garanzia valga anche successivamente alla cessazione dalla carica, ma in ogni caso riguarda esclusivamente i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, nonché (ovviamente e conseguentemente) per il periodo in cui i soggetti hanno esercitato la carica politica (vedi l’art. 96). Non dunque per atti privati o per periodi non relativi al mandato.
Si può ancora richiamare l’art. 68 che limita l’insindacabilità dei parlamentari all’esercizio delle funzioni. Per quanto si voglia dare una interpretazione estensiva alla formula dell’esercizio delle funzioni parlamentari e collegare ad essa tutta o gran parte dell’attività politica svolta dal parlamentare (come in passato s’è cercato di fare, ma ormai la Corte costituzionale – come è ben noto – non consente più), è chiaro che la limitazione è finalizzata proprio ad escludere – in questo caso come nei precedenti – che la prerogativa possa coprire attività privatamente svolte da singoli, tanto più in periodi in cui questi non esercitano alcuna attività parlamentare.
Appare dunque in tutti i casi confermarsi il principio di portata generale richiamato in precedenza: le democrazie contemporanee (il nostro sistema costituzionale, in particolare) pure affermando la necessità di tutelare l’autonomia degli organi costituzionali, utilizzando lo strumento delle prerogative costituzionali, hanno sempre teso a limitare questi stessi strumenti, essenzialmente in base al criterio di distinguere l’attività compiuta nell’esercizio delle funzioni dalle altre attività lasciate alla “grande regola” dello Stato di diritto e di considerare possibile far valere prerogative solo per il periodo relativo al mandato, magari anche successivamnete al mandato, ma comunque limitatamente a quello specifico periodo di tempo.
La revisione annunciata – che si vuole introdurre per via ordinaria, come emendamento ad un disegno di legge che parla di altro (le immunità parlamentari, che nulla hanno a che vedere con i reati commessi da titolari di alte cariche dello Stato prima di assumere tale ufficio) – se anche volesse essere proposta con legge di revisione costituzionale, innoverebbe fortemente il nostro sistema costituzionale, la visione complessiva dei rapporti tra poteri, gli equilibri tra questi e la giustizia, che la nostra tradizione ci ha consegnato.
E’ vero: si tratterebbe di una sospensione e non di una assoluzione. Il processo potrebbe pur sempre riprendere al termine del mandato (purché il soggetto interessato non sia rinnovato nell’incarico, ovvero non venga nominato o eletto ad un’altra tra le cariche per le quali non si può procedere) e dunque le ragioni della giurisdizione potrebbero, a quel punto, ristabilirsi. Anni dopo. In tempi non sospetti, i nostri Maestri ci hanno però insegnato che il tempo lungo nella giustizia rende comunque ingiuste le decisioni dei giudici. Chi ha a cuore le ragioni del diritto, e teme le ingiustizie che possono provenire dalla giurisdizione (più che dai giudici), non può che meditare.