1. Da molti mesi si è riaperta la discussione sul significato e l’efficacia della norma contenuta nell’art. 11 della Costituzione. Da molti mesi, un enunciato normativo dalla chiarezza e dalla icasticità espressiva quale è quella che fu raggiunta dal Costituente italiano col dichiarare il ‘ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’, e una collocazione incontestabile di tale norma tra i principi fondamentale della Repubblica, pur ricevendo rituali omaggi ed ipocriti inchini, ridestano mascherate ma pervicaci e diffuse insofferenze collettive. Che sono da attribuire, con ogni probabilità, alla dissoluzione degli orizzonti di gloria militare, alla preclusione degli eroici destini, alla soppressione delle marce trionfali, insomma, alla repressione, per norma costituzionale, degli istinti belluini che si aggregano nel fondo mortifero su cui poggia quel vetusto, e perciò plurisecolare potere criminogeno, denominato jus ad bellum. Quanto al significato di tale principio, la sua assolutezza non è stata scalfita da nessun atto legittimo, da nessuna rilettura credibile, da nessun intervento di autorità superiorem non recognoscens. Tanto meno dalle mediocri escogitazioni dei sentenziosi iperrealisti che, vestendo ogni giorno la toga trafugata di maestri del giure naturale e positivo, di teoria e pratica politica, di etica pubblica, e di chi sa quali altre scienze o arti , si affannano a svolgere una impresa tanto patetica quanto intollerabile. Quella di provare ad affievolire diritti, ad annacquare principi, a contenere pretese, a limitare obiettivi e a moderare speranze, per dimostrarsi simili ai detentori del potere ed essere quindi giudicati maturi per esercitarlo allo stesso modo. Questi personaggi vorrebbero ora convincerci che la portata di tale norma risulterebbe attenuata perché assorbita dalla capacità precettiva dello Statuto delle Nazioni Unite. Attenuata perché, con una disinvoltura che ha valicato ampiamente i confini dell’arbitrio, pretendono di interpretare le norme di detto Statuto come se attribuissero al Consiglio di sicurezza un potere del tutto discrezionale di autorizzare agli stati l’uso legittimo della forza militare, e quindi – ma il ‘quindi’ lo aggiungono loro – a muovere guerra. Il che corrisponderà alla loro immaginazione, commista com’è alla loro vocazione a ricercare obblighi ineludibili cui sottostare, chiunque li imponga, ma non ha nulla a che fare con la lettera e lo spirito dello Statuto delle Nazioni Unite. Che, infatti, contiene l’attribuzione di detto potere, ma lo descrive integralmente ed esattamente, quanto a ipotesi, modalità e finalità del suo esercizio. Cioè, senza margini per interpretazioni mistificanti che tendano a convertirlo alla legalizzazione di guerre, comunque poi le si vogliano ipocritamente chiamare. 2. Le disposizioni dello Statuto delle N. U. che prevedono l’uso delle forza e lo legittimano sono contenute nel Titolo VII agli articoli 39 – 48. Sono tutte, esplicitamente o ‘per relationem’, finalizzate al ‘mantenimento della pace’, espressione questa reiterata ogni qualvolta deve o può essere direttamente o indirettamente indicato, o anche evocato, il fine cui l’uso della forza deve essere diretto. Infatti, la prima disposizione che entra nel merito dei compiti del Consiglio di sicurezza in materia di violazione della pace, è quella che attribuisce a tale organo delle Nazioni Unite il potere di adottare misure ‘non implicanti l’uso della forza’ una volta che sia accertata ‘l’esistenza di una qualsiasi minaccia alla pace, violazione della pace o atto di aggressione’ (art. 41). Segue quella che prevede la constatazione della inadeguatezza di tali misure e la conseguente decisione di ‘intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, quelle azioni che siano necessarie per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale, … azioni che possono comprendere dimostrazioni, blocchi, ed altre operazioni da parte di forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite’ (art. 42). Ora, la risoluzione 1441 dell’8 novembre 2002 rientra nella previsione del suindicato art. 41 e, come tale, non comporta l’uso della forza. Perciò Stati Uniti, Inghilterra e Spagna insistono per una seconda risoluzione, quella che dovrebbe invece comportare tale uso. Ma perché una tale risoluzione possa essere deliberata, è necessario che il Consiglio di sicurezza accerti l’inadeguatezza delle misure previste dalla risoluzione 1441, inadeguatezza da accertare e dichiarare dallo stesso Consiglio. Il che però sarebbe impedito da quanto riferiscono gli ispettori che in Iraq, su mandato del Consiglio, si adoperano per accertare l’esecuzione delle risoluzioni emanate per il disarmo di quel Paese, e che, lungi dal constatare l’inadeguatezza delle misure, chiedono invece di potere disporre di maggiore tempo per l’esaurimento del loro compito. Quel tempo che Usa, Inghilterra e Spagna non intendono concedere insistendo per una ‘seconda risoluzione’ che contempli l’uso della forza. Risoluzione, che ammesso pure che sia approvata con la maggioranza di nove Stati membri e ammesso pure che non subisca il veto di Francia o Russia o Cina, sarebbe sicuramente illegittima. Per una serie di motivi. Perché, non potrebbe basarsi su di una motivazione credibile, anzi, contraddirebbe il convincimento degli ispettori, travisando i fatti e sovrapponendo presunzioni addotte da uno o due Membri del Consiglio di sicurezza, non corredate da prove attendibili, a valutazioni e giudizi espressi dagli incaricati del Consiglio di sicurezza, sulla base di riscontri oggettivi e provati. Perché la presunzione o la denunzia di uno o anche di più membri del Consiglio di sicurezza, ammesso pure che si rivelino fondate, rivelando con dati inconfutabili che l’Iraq possiede armi di distruzione di massa, non sarebbe sufficiente ad autorizzare una guerra. Anche se è quanto mai deprecabile il possesso di simili armi, peraltro molto diffuso, anche se dovrebbe derivarne la necessità della loro distruzione generalizzata, generalizzata e perciò non esigibile da un Stato solo, tale possesso non comporta la legittimazione di un intervento armato. A stabilirlo non è stato il movimento pacifista ma il Consiglio di sicurezza più volte e la Corte internazionale di giustizia. Una risoluzione del tipo di quella che propongono Stati Uniti, Inghilterra e Spagna rovescerebbe questo indirizzo che è politico e giurisprudenziale e ne rivelerebbe l’illegittimità per manifesta ingiustizia e palese disparità di trattamento tra gli Stati membri dell’ONU, che per definizione si pongono come pari e pretendono per Statuto il riconoscimento di tale parità, proprio grazie al principio affermato all’art. 2, che individua il fondamento dell’Organizzazione sulla ‘sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri’. Perché quel che lo Statuto delle Nazioni Unite preclude, con divieto assoluto, generale, ineludibile, e inderogabile, è la guerra come tale, comunque la si chiami, perché quel che condanna è proprio l’azione militare che integra, o corrisponde, anche solo in parte, ad una guerra. La si può individuare, questa azione, per distinzione, anzi per opposizione a quella prevista dall’art. 42 dello Statuto delle Nazioni Unite e diretta al fine specifico, limitato ed individuato del disarmo di uno Stato nella misura necessaria a far cessare la situazione di pericolo, o la violazione della pace o l’atto di aggressione, di cui detto stato è responsabile, salvaguardando in ogni caso l’incolumità della popolazione civile. Distinzione ed opposizione che comporta come definizione della guerra il fine che ogni guerra ha sempre perseguito e persegue, quello della sconfitta del nemico, della riduzione di questo alla mercé del vincitore, cioè a subire le condizioni che gli si impongono per la cessazione delle ostilità, a sottostare alla situazione di perdita della sovranità interna oltre che di quella internazionale, a dover magari cambiare coattivamente la forma di stato e/o di governo. Si rifletta, allora, sull’insieme delle disposizioni normative in esame sugli interventi delle N. U. per garantire la pace e la sicurezza. Sulle ragioni per le quali fu previsto nel Capo VII la formazione di una forza armata multilaterale sottoposta ad un Comitato di stati maggiori militari composto dai capi di stato maggiore dei Membri permanenti del Consiglio di sicurezza, (artt. 43 e 47). È vero che non si è data attuazione a tali prescrizioni, ma nell’interpretare l’intero sistema normativo delle N. U. per carpirne il senso complessivo, non si può ignorare l’assillo pacifista nell’individuazione di un meccanismo volto a trasferire dai singoli stati all’Organizzazione gli strumenti di coercizione esterna; da sempre oggetto di monopolio statale. Si rifletta sulle ragioni per le quali il Consiglio di sicurezza prima di adottare misure implicanti l’impiego di forze armate deve decidere quali altre e diverse misure vanno adottate per dare effetto alle sue decisioni volte a mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Si rifletta soprattutto sul significato che assume la disposizione dello Statuto che definisce le azioni che possono essere intraprese “con forze aeree, navali e terrestri …. ‘ azioni che condiziona all’esclusiva necessità di ‘mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza”. Il testo che definisce dette azioni suona cosi: “Tali azioni possono comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni da parte di forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite”. Si sa che cosa significano i termini “dimostrazioni e blocchi”, si sa che il problema vero è quello dell’interpretazione delle due parole “altre operazioni” (art. 42). Data la connessione di queste parole con quelle che le precedono, nella stessa proposizione normativa, sembra però francamente distorsivo dello spirito della norma oltre che del senso letterale che, a rigore, a queste parole va quindi attribuito, equiparare il loro significato a quello di guerra. Ed ogni tentativo di usare l’espressione “polizia internazionale” o altre similari per coprire un intervento bellico appare, ed è, inequivocabilmente mistificatorio. 3. Il divieto della guerra che – come si diceva – è formulato nello Statuto delle N. U. in termini di assolutezza, generalità, ineludibilità e inderogabilità, incontra una sola eccezione, quella della legittima difesa di cui all’art. 51. É vero che il significato di tale espressione, da tempo, si è andato dilatando1 fino a comprendere la sua manifestazione preventiva rispetto all’attacco armato in atto, secondo interpretazioni che dell’articolo 51 ne hanno dato alcuni stati, tra i quali l’Iraq, quando, nel 1980, volle giustificare l’attacco sferrato all’Iran. Ma tale estensiva interpretazione è stata addotta sempre e solo per giustificare interventi a difesa preventiva nei confronti di stati confinanti. Di casi cioè del tutto incomparabili con quello che l’umanità sta vivendo attualmente, che si distingue infatti da tutti quelli in cui si è mirato a prevenire l’aggressione di altro stato confinante. Che non ci sia possibilità di assimilazione è noto a tutti ed evidente a chiunque, basti considerare la distanza enorme che separa l’Iraq dagli USA, l’insussistenza, l’inconcepibilità, anzi, di una minaccia dell’Iraq agli USA, l’abissale differenza del potenziale bellico statunitense rispetto a quello irakeno. Né è a dirsi che gli USA siano minacciati dal terrorismo islamico, non essendo assistita questa prima accusa all’Iraq da prove credibili sui rapporti tra l’Iraq e Al Qaeda e non essendo proponibile ormai, neanche come ipotesi, la congruenza dello strumento della guerra per la lotta al terrorismo. Nessuna motivazione quindi può sostenere la legittimità di una risoluzione del Consiglio di sicurezza che autorizzi Stati Uniti e Gran Bretagna a muovere guerra all’Iraq. Anche considerando che se fosse deliberata non potrebbe sottrarsi alla delegittimazione morale per essere stata adottata grazie all’assenso di alcuni o anche di uno solo dei votanti, acquisito però a seguito di minacce o pressioni, quindi con frode nei confronti delle norme sulla libertà di voto del membri del Consiglio di sicurezza e in netto contrasto con l’etica internazionale. (Il riferimento alle minacce, pressioni, proposte di compensi, presenti e futuri, diretti o mediati attraverso i ‘buoni uffici’ da spendere presso il F. M. I. o la Banca Mondiale e a previsioni su conseguenze rifluenti sui rapporti commerciali derivanti da comportamenti reattivi degli organi interni agli stati in sede di ratifica dei trattati internazionali, è ampiamente motivato). Ma c’è una ragione ulteriore, giuridica e politica, che inficia la legittimazione di una eventuale deliberazione del Consiglio di sicurezza autorizzante l’intervento armato degli U.S.A. e del U. K. in Iraq. É l’incredibilità delle forze armate statunitensi e britanniche a sottoporsi al Consiglio di sicurezza, la cui direzione, alla stregua di quanto previsto dagli articoli 44-48 e 53, è condizione indispensabile per la liceità degli interventi armati deliberati dal Consiglio di sicurezza, della loro condotta, della loro finalizzazione e della loro durata. Tanto più indispensabile, tale condizione, in quanto, com’è noto2, lo Statuto è rimasto inattuato nella parte che prevedeva la formazione del Comitato dei Capi di stato maggiore dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza e, con detto Comitato, la formazione dei contingenti militari a diretta disposizione del Consiglio per gli interventi coercitivi che avesse deciso per le azioni volte al mantenimento della pace. Va detto, quindi, chiaramente che senza direzione delle operazioni da parte del Consiglio di sicurezza, non c’è legittimità di operazioni militari. Va anche, conclusivamente, affermato, sulla base delle riflessioni che precedono, che le risoluzioni del Consiglio di sicurezza, non si sottraggono ad un giudizio di legittimità, non sono esenti da valutazioni critiche, non dettano diritto, lo devono attuare, eseguire. 4. Emerge, a questo punto, la questione del rapporto tra ordinamento internazionale ed ordinamento interno, quanto alla questione della pace e della guerra, questione classica del diritto costituzionale e di quello internazionale. Non è, ovviamente, questa la sede per discutere di monismo kelseniano e di pluralismo romaniano, può, invece, essere quella di una risposta, che potrà compensare la sua più che probabile rapidità con una chiara nettezza, sulla convergenza o sulla divergenza dell’ordinamento costituzionale e di quello internazionale, inteso, ovviamente, quest’ultimo come quello instaurato con la Carta delle Nazioni Unite, la Dichiarazione universale dei diritti umani, lo Statuto della Corte di giustizia. Ebbene, si può affermare con assoluta sicurezza che tra i tre atti normativi testé indicati e la Costituzione italiana c’è piena convergenza, di ispirazione, di finalizzazione, addirittura di contenuti. Alla tensione alla pace cui si ispira lo Statuto delle Nazioni Unite, ai divieti sanciti, alle misure previste per assicurarla, per difenderla, per restaurarla, per edificarla, corrisponde esattamente il contenuto dell’articolo 11 della Costituzione che è proprio il caso di analizzare, rifiutando alcune interpretazioni correnti sostenute con molta foga ma profondamente errate. Vanno ricordate alcune premesse. I tre enunciati dell’articolo 11 della Costituzione sono distinti con un segno d’interpunzione che sta ad indicare che nel medesimo articolo si succedono tre proposizioni normative. Si sa, da sempre, che il punto e virgola è usato proprio per separare proposizioni distinte, aventi contenuti (quindi significati) diversi. Si sa pure che, di solito, dette proposizioni sono rette da uno stesso soggetto come nel caso del suddetto articolo 11 della Carta costituzionale. Ma l’esser rette dallo stesso soggetto non comporta che ci sia connessione di ulteriore interdipendenza tra le proposizione normative. L’identità del soggetto sta solo ad indicare uno solo degli elementi del contesto discorsivo. La cui ampiezza varia e comprende di solito l’ambito, il tempo, il luogo, il che, ecc. Nel discorso precettivo gli elementi del contesto possono essere: la materia (ad es. lo stato nei suoi rapporti esterni) le caratteristiche delle figure giuridiche soggettive implicate, i rapporti tra dette figure, i poteri di cui sono titolari, la dinamica funzionale cui sono vincolate, gli atti che producono, le vicende ulteriori alla produzione di detti atti. Le norme, e per esse le proposizioni normative, infatti, si distinguono a seconda che dispongano: a) obblighi di azione, di relazione, di astensione assoluta, relativa, condizionata, temporanea, permanente; b) facoltà, il cui uso è variamente descritto; c) poteri il cui esercizio è regolato in tutto o in parte e che perciò si compone di elementi (fasi) vincolate o libere; d) oneri. Ne deriva che le norme possono essere inquadrate nello schema: devi/devi non/puoi3. Si può ora esaminare il testo dell’articolo 11. La prima proposizione normativa che si legge sancisce un obbligo di astensione. Nella specie in esame è quello derivante da un divieto assoluto: della “guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. La norma che vi corrisponde è del tipo che, nello schema, è indicata come seconda: devi non. La seconda proposizione normativa contiene un’autorizzazione all’ablazione, una possibilità di azione restrittiva di un potere, quello corrispondente alla sovranità statale, alle condizioni tassativamente prescritte (condizioni di parità con gli altri stati) per fini individuati (“un ordinamento che assicuri la pace e la sicurezza”). Risponde al tipo che nello schema è indicato come terzo: puoi (ma a condizione che). La terza proposizione normativa pone un obbligo di fare (“promuovere e favorire le organizzazioni internazionali rivolte allo scopo” indicato nella proposizione precedente). Risponde al tipo di norma indicato nello schema come primo: devi. È del tutto evidente che norme di tipo diverso possono collegarsi sì, ma non secondo una sorta di subordinazione logica della prima proposizione alla seconda, alla terza e via subordinando. Non c’è nessuna ragione per crederlo. Ma si comprende bene perché lo si sostiene: per poter eludere la rigidità del divieto contenuto nel primo enunciato, pretendendo di fare passare la falsa e per di più cervellotica interpretazione secondo cui le limitazioni alla sovranità previste dal secondo enunciato abbiano comportato una sorta di attenuazione del ‘ripudio’, abbiano avuto ad oggetto proprio la finalizzazione della limitazione della sovranità che l’articolo 11 consente, il che francamente stupisce per il vortice di assurdità in cui vorrebbe attrarre chiunque sappia leggere proposizioni normative con onestà di spirito e non sia affetto dalla ‘cupidigia di servilismo’ cui faceva riferimento proprio a proposito di rapporti internazionali dell’Italia quel grande maestro del diritto costituzionale che fu Vittorio Emanuele Orlando. Se qualcuno poi intende, a mo’ dei giuristi dommatici dell’ottocento tedesco rinnovandone i fasti, disegnare il “sistema” derivante, nella specie, dalla interazione tra ordinamento costituzionale italiano e l’ordinamento internazionale in fieri che intende imporre al mondo l’unica grande potenza militare del pianeta ed anticipare la posizione di vassallaggio che spetterebbe all’Italia al compimento del processo di costruzione giuridica dell’impero mondiale nordamericano, lo dica. Non attenderemo le sue conclusioni passivamente. Gli assicuriamo però che, per ora, a Statuto delle N. U. vigente – anche se sostanzialmente incrinato dai comportamenti degli U. S. A. che non dimostrano né fanno presagire per il futuro quella lealtà e quelle fedeltà ai principi della Carta che comporterebbe l’adesione e non la denunzia ed il sabotaggio del protocollo di Kyoto, del trattato Abm sui missili balistici, del Trattato istitutivo delle Corte penale internazionale, di quello sulle mine antiuomo, del protocollo sulle armi biologiche, di quello sulla messa al bando totale delle armi nucleari – una interazione tra ordinamento internazionale e ordinamento costituzionale italiano esiste ed è solida: coincidono i principi su cui i due ordinamenti si basano, le finalità cui tendono, principi e finalità che si integrano assumendo un nome, quello della pace. Possiamo comunque anche assicurargli che, per ora, a Costituzione italiana invariata, la norma di chiusura del sistema che risulta dal rapporto ordinamento italiano ed ordinamento delle Nazioni Unite esiste. É in quel principio denominato “pace”, che motiva ampiamente sia il ripudio della guerra, sia la cessione di sovranità, sia l’obbligo di favorire e promuovere le organizzazioni internazionali rivolte allo scopo di assicurare la pace e la giustizia tra i popoli. Non ad altro e diverso obiettivo, non alla subordinazione al potere sovrastante e devastante di un Paese solo. 5. Qualche riflessione ulteriore la merita il principio espresso col ripudio della guerra. Si è già posto in qualche rilievo che l’articolo che contiene questa espressione normativa è tra quelli che vengono qualificati come principi fondamentali. Va allora dedotto che si tratta, quindi, di principi fondamentali che la Costituzione intesta alla Repubblica, allo stato italiano. Così come intesta tutti gli altri, quello della sovranità popolare, quello dei diritti inviolabili, quello dell’eguaglianza formale e sostanziale, del diritto al lavoro, del riconoscimento delle autonomie locali nell’indivisibilità della Repubblica, della tutela delle minoranze, della laicità dello stato, della promozione della cultura, della conformazione dell’ordinamento italiano alle norme del diritto internazionale generale. Princìpi tutti che comprendono, confermano e sviluppano anche in modo molto avanzato conquiste di civiltà che il costituzionalismo aveva già raggiunto, anche se in forme diverse, modulandole con tratti forse meno marcati ma similari. Il ripudio della guerra si pone, invece, come una conquista di civiltà umana del tutto inedita4. Sta a significare l’abbandono della proiezione, mai rinunziata, della sovranità statale oltre i confini statali e perciò in permanente conflittualità potenziale, il rifiuto delle teorie e delle ideologie che, hanno avvolto e pervaso lo stato, da Machiavelli a Bodin, a Grozio, a Hobbes, a Locke ad Altusio fino a Schmitt ed a Kelsen. Sta a significare che lo stato italiano, a seguito delle tante sciagure, umane, economiche e ambientali, provocate dalla guerra fascista, a seguito della Resistenza e della Guerra di Liberazione, ad opera della Costituzione repubblicana, è risultato conformato in modo da definirsi per il rifiuto del retaggio plurisecolare che ha attribuito al soggetto-stato la titolarità del jus ad bellum e l’esercizio del jus bellandi, da distinguersi dalle altre entità statali quanto a strumentazioni disponibili nel diritto internazionale generale, e da qualificarsi precipuamente come membro della comunità internazionale che la Carta delle Nazioni Unite rifondava ponendo la pace come fine supremo. Non è poco. È una nuova concezione della convivenza umana che proclama la Costituzione italiana col ripudio della guerra. Un nuovo nomos che si affaccia a sfidare storia e potere, istinto e paura, in nome della ragione e del diritto. 6. Una domanda si propone spontanea, a questo punto. Nessun dubbio sul significato, sulla portata e sulla validità delle norme dell’articolo 11 della Costituzione, nessun dubbio soprattutto sulla pregnanza del ‘ripudio’ dichiarato col primo degli enunciati che si leggono nel testo di questo articolo. Ma di quale efficacia è provvisto il divieto che concretizza il ‘ripudio’, chi e come può prestare atti e comportamenti idonei a munire la norma dell’articolo 11 dell’esecutorietà necessaria per inverarne l’efficacia? Le domande sono quanto mai pertinenti. Nessuno può dubitare che meritino una risposta seria e puntuale. Una risposta a queste domande è stata data dall’ex Presidente della Repubblica, il senatore di diritto Francesco Cossiga, che si è così associato al suo successore, il senatore Oscar Luigi Scalfaro ed all’ex Presidente della Camera Pietro Ingrao da sempre impegnati nella difesa tenace del significato e del vigore dell’art. 11, così come – e fu il suo ultimo atto politico – volle battersi per far riconoscere la forza operante di tale norma il senatore a vita Francesco De Martino, quasi a rinnovare la comune convinzione delle tre maggiori forze politiche che vollero e scrissero la Costituzione repubblicana del valore permanente di tale conquista di civiltà giuridica e politica. Il senatore Cossiga con una lettera aperta al Presidente in carica Carlo Azeglio Ciampi5 ha ricordato che il Presidente della Repubblica ‘ha fin d’ora, il dovere di essere il garante della Costituzione, ed in particolare dell’utilizzazione conforme alla Costituzione, e ai principi del diritto internazionale che essa fa propri, delle forze armate e dello strumento militare globale nazionale esercitando quindi pienamente e rigorosamente i suoi diritti-doveri: di essere informato, consigliare, e ammonire. Ma se ciò non bastasse, Lei, Signor Presidente, avrà il potere-dovere di intervenire più incisivamente, anche più gravemente e drammaticamente, con un ordine negativo alle autorità militari e civili perché non procedano a un uso illegittimo dello strumento militare, anche se in «obbedienza», non doverosa, anzi illegittima, a direttive od ordini del governo … anche se questi ordini dovessero essere avallati da decisioni e deliberazioni della maggioranza parlamentare che sostiene il governo: esse, poiché in contrasto con la Costituzione, sarebbero illegittime, nulle e prive di ogni effetto’. Aggiunge poi che qualora il Presidente della Repubblica fosse impedito o ritenesse di non essere in grado di adottare dette misure, avrebbe un ultimo ed impegnativo dovere, quello di dimettersi. 7. Va riconosciuto: la tesi del senatore Cossiga, almeno per questa prima parte6, è ineccepibile. È esattamente quella stessa della migliore e prevalente dottrina costituzionalistica italiana . La figura del Presidente della Repubblica nel nostro ordinamento costituzionale fu analizzata, esaminata e definita nelle sue grandi linee a pochi anni dall’entrata in vigore della Costituzione da Giuseppe Guarino7. A lui si deve l’impostazione generale delle questioni attinenti alla posizione nel sistema ed al ruolo che deve svolgere tale organo di vertice dell’ordinamento. A lui, in particolare, si deve la prima esplicazione della definizione di ‘garante’ della Costituzione’ come titolare della funzione per cui il Presidente ‘ha la cura della Costituzione, sorveglia che la Costituzione funzioni’ per cui ‘il Presidente può rifiutare il suo assenso agli atti del Governo per ragioni sia di legittimità che di merito’, ed ha ‘non tanto il potere quanto il dovere di non prestare la sua collaborazione ad un provvedimento del governo che egli ritenga posto in violazione di norme costituzionali’ e può esercitare efficacemente tale funzione grazie alla sua autonomia ed alla sua indipendenza non svolgendo attività di governo e non essendo legato particolarmente a nessuno dei poteri tradizionali ma seguendo ‘la vita dello stato nei suoi principali atti, controlla non uno solo di essi ma tutti gli altri poteri nei momenti essenziali della loro esistenza.’8 Il primo costituzionalista che ha affrontato in un’opera organica la questione che ci occupa e che con grande acume e ricchezza dottrinale, ha seguito l’evolversi dell’ordinamento sul tema della funzione presidenziale nella condotta dei regimi di emergenza, Giovanni Motzo, nel costruire la figura del Presidente della Repubblica ebbe modo di constatare come tale organo abbia ‘nel sistema attuale, e nell’ambito dei rapporti tra organi di suprema direzione dello stato carattere rappresentativo e posizione di responsabilità nei confronti del popolo’. Carattere e posizione che consentiva di individuare una politica presidenziale cadenzata da ognuno degli atti di funzione alla cui formazione era chiamato a partecipare, poggiata su di un asse garantista del regime costituzionale che gli avrebbe imposto sicuramente di rifiutare la firma ad atti del governo da considerare inesistenti, se ed in quanto posti in essere dal governo in violazione della Costituzione, specie nelle situazioni di emergenza, quali quelle di apertura delle crisi belliche, rimarcando il dovere del Capo dello stato di rifiutare la sua firma ai provvedimenti del governo affetti da incostituzionalità assoluta: deve assumere ‘un ruolo accentuato di garanzia attiva e di controllo politico…’9. Tornando poi sulla questione, a proposito delle conclusioni cui giunse una commissione governativa istituita per l’esame dei problemi costituzionali concernenti il comando e l’impiego delle Forze armate, Motzo ebbe modo di confermare la tesi del controllo del Capo dello stato non soltanto sugli atti instaurativi delle situazioni di emergenza ma sugli impieghi delle forze armate ‘che mettano in pericolo valori costituzionali’ insistendo sul dovere del Presidente di sanzionare e tempestivamente, anche, ed a maggior ragione nei casi di belligeranza non dichiarata e pur se si tratti di decisioni di necessaria immediatezza, comportamenti od atti che violino norme costituzionali e rifiutandosi di firmarli, emanarli, ecc.10 Ma a proposito della relazione della Commissione governativa di cui sopra, è invalsa la convinzione che le conclusioni cui giunse furono tali da riconoscere al governo tutte le competenze sostanziali sul comando, l’impiego e la condotta dell’emergenza bellica, oltre che sull’instaurazione delle situazioni di emergenza. Convinzioni di questo tipo sembrano piuttosto non del tutto fondate, anche se non si può tacere un eccesso di ‘governativismo’ nell’impostazione delle questioni scelta dalla Commissione e nella valutazione dei profili inerenti alle competenze ripartite tra Presidente della Repubblica e governo. Ma per quanto riguarda specificamente la questione del potere presidenziale di salvaguardia del valore iscritto nell’art. 11 va invece constatata una fondata ed accolta preoccupazione, evidentemente emersa nel suo seno, che la indusse a riconoscere che qualora ‘norme costituzionali vigenti in materia venissero messe in questione, può dirsi che il Capo dello stato avrebbe il potere-dovere di inviare alle Camere un messaggio di denuncia (eventualmente accompagnato da una convocazione in via straordinaria delle Camere stesse, ai sensi dell’articolo 62, secondo comma della Costituzione)’ e ipotizzò che ‘detto messaggio sia anche rivolto in maniera diretta dal Presidente al Paese, nella veste di viva vox Constitutionis’11. La Commissione escluse però che nel caso di crisi nei rapporti tra Presidente della Repubblica e governo a causa di attentati alla Costituzione posti in essere dall’esecutivo, potessero riemergere ‘latenti poteri di effettivo comando’ del Presidente ‘in virtù dei quali il Capo dello stato potrebbe inserirsi nell’ordinaria linea di comando, collegandosi direttamente con gli ufficiali responsabili o con i vari componenti di questo o di quel corpo armato in aperto conflitto con il governo …’. Ma la motivazione di tale esclusione è stupefacente. Visto che si tratterebbe di ipotesi estreme, extra ordinem, la Commissione affermò la persuasione che se si verificasse un caso del genere ‘ciascuno cittadino agirebbe in via di fatto, a proprio rischio e secondo coscienza’. Ora, escludere un intervento presidenziale, volto a far valere un principio, una norma, una funzione, una garanzia costituzionale, e, perciò a restaurare l’ordine costituzionale, anche al prezzo di sanzionare il comportamento o l’atto del governo che lo abbia conculcato o violato ed in misura tale da poter provocare una reazione del Presidente della Repubblica così grave da indurlo a rompere l’ordine delle gerarchie militari, rivela un’opzione di fondo che inficia clamorosamente la tesi della Commissione, l’opzione per la presunzione pregiudiziale ed assoluta della intangibilità degli atti del governo, da comportare anche il prezzo della dissoluzione dell’ordinamento, pur di assicurare l’impunità dei governanti. Di fronte ad una visione dei rapporti di potere di tale genere si deve immaginare che la maggioranza dei membri di quella Commissione sia stata colpita da un improvviso offuscamento dell’idea di stato di diritto. Il riferimento alla sola maggioranza di quella Commissione è dovuto alla circostanza che quell’insigne giurista del suo Presidente, Livio Paladin, in un saggio importante, sulla scorta della dottrina prevalente, a proposito del comando delle forze armate, aveva sostenuto che ‘non si tratta di un ufficio presidenziale meramente onorifico, ma di una carica suscettibile di concrete estrinsecazioni, inclusa – al limite – la potestà di impartire ordini alle truppe’ ‘un’ipotesi – aggiungeva – che non potrebbe realizzarsi di frequente, a pena di sconvolgere i normali rapporti tra le forze armate ed i competenti organi di governo’ e perciò nei casi che avrebbero richiesto il suo intervento di ‘garante dei valori costituzionali esplicitamente affermati o implicitamente desumibili dalle norme costituzionali’12. Ed aveva ragione Paladin a riferirsi alla dottrina prevalente. Già Barile aveva sostenuto la tesi che spettasse al presidente della Repubblica il potere di impartire ordini alle truppe in ragione e per le finalità connesse alla sua funzione di garante della Costituzione13. Altrettanto Predieri14, oltre che gli Autori che hanno sostenuto l’attribuzione di un ruolo di indirizzo politico al Presidente in materia di politica militare proprio in vista della funzione di garanzia di valori costituzionali15 e, successivamente, solo sulla base della funzione di garanzia costituzionale che deve svolgere e prescindendo così dalla questione della compartecipazione alla funzione di indirizzo politico militare, quale comandante delle forze armate, De Vergottini16, e, più di recente, Manzella17, e da ultimo Angiolini, dopo un’accurata ed acuta disamina dei problemi emersi negli ultimi anni18. 8. A mo’ di conclusione si può dire che la dottrina costituzionalistica italiana, in questi cinquanta e più anni, pur nella varietà delle diverse ricostruzioni della figura del Presidente della Repubblica garante della Costituzione e comandante delle forze armate, ha tenuto fede ai suoi doveri deontologici ed ha seguito una linea coerentemente garantistica dei principi e delle norme costituzionali in ordine all’efficacia dei contenuti precettivi dell’articolo 11. Perché il problema che pone la norma dichiarata da questo articolo – e va detto senza infingimenti – è esattamente quello di chi e come lo garantisce, di chi e come gli offre gli strumenti attraverso cui il suo significato può inverarsi nella dinamica dello stato italiano, partecipe all’Alleanza atlantica e vincolato ad una serie di accordi internazionali con gli Stati Uniti la cui interpretazione esecutiva non può in nessun caso eludere, tanto meno violare, ma neanche flettere l’univoco significato della norma sul ripudio della guerra. Elusioni, violazioni, o anche flessioni che sono quanto mai sollecitate dalle vicende dei rapporti internazionali così tormentati in un quadro destabilizzato dell’ordinamento internazionale fondato sulla Carta delle Nazioni Unite. Ragioni tutte che impongono una funzione di garanzia attiva e tempestiva che obbliga tutti gli organi costituzionali ma che solo il Presidente della Repubblica può assicurare nella sua interezza, a qualsiasi costo, stante la sua responsabilità personale che può far valere rispetto e nei confronti di tutti gli altri organi dello stato, quella che gli ascrive l’art. 90 della Costituzione.
Gianni Ferrara