Il 13 ottobre 2003, pochi giorni dopo l’approvazione, da parte del Governo, del d.d.l. di modifica di ben trentaquattro articoli della nostra Costituzione, si tenne, presso la Biblioteca della Camera dei deputati, una tavola rotonda, sul tema «Riformare la Corte costituzionale?». Alla tavola rotonda parteciparono diversi ex presidenti della Corte costituzionale (Baldassarre, Conso, Elia, Granata, Mirabelli, Ruperto e Vassalli) e alcuni costituzionalisti (Carlassare, Ferrara, Luciani e il sottoscritto). I quotidiani dettero poco risalto all’avvenimento.
Eppure, la riunione era stata assai importante: tutti -dico tutti- i partecipanti, a partire da Antonio Baldassarre, criticarono l’iniziativa governativa. La quale, elevando il numero dei componenti della Corte da 15 a 19, mira nei fatti a distruggere uno dei pochi organi costituzionali che ha ben operato, …nonostante il già elevato numero dei componenti (più di un ex presidente ha ammesso che «si lavorava meglio quando mancava qualche giudice»!). Un collegio di 19 persone è infatti più un organo politico che giurisdizionale, in quanto l’eccessivo numero di componenti è inidoneo all’esame e alla discussione di argomentazioni giuridiche non sempre radicalmente contrapposte, ma ciò non di meno giuridicamente diverse.
Da più parti, in quella stessa riunione, si ricordò, significativamente, il tentativo del Presidente Roosevelt, nel 1936, di aumentare surrettiziamente i giudici della Corte Suprema (che si era mostrata fino ad allora poco disposta a favorire il «New Deal»), con un «infornata» di altri sei giudici, che avrebbero dovuto affiancare i giudici ultrasettantenni. E si ricordò anche che il Chief Justice Hughes disse che 9 giudici era il massimo sopportabile per la Corte Suprema, perché aumentare i giudici avrebbe aumentato l’arretrato. E si ricordò infine che, nonostante la maggioranza di quattro a uno per i democratici, alla Camera, e di 38 a 18 al Senato, Roosevelt, nonostante tutti i tentativi di ridimensianamento del suo progetto iniziale, dovette rinunciarvi per l’opposizione massiccia portata avanti dal suo stesso partito, in nome del rispetto della Costituzione!
Quella tavola rotonda meritava però una maggiore attenzione, da parte della pubblica opinione e dei parlamentari, anche per un’altra importante ragione. E cioè per il fatto che da molti degli ex presidenti e da tre dei quattro costituzionalisti si sottolineò che la nostra Costituzione -come già avevo ricordato nel quotidiano “Europa” il 20 settembre 2003- non consente una modifica contestuale di disposizioni tra loro disomogenee.
Se è vero, come è vero, che è nella Costituzione -in quanto legge suprema- che devono esplicitamente rinvenirsi le modalità della sua eventuale modificazione, è allora facile concludere che, diversamente dalle Costituzioni austriaca, spagnola e svizzera, la nostra Costituzione non prevede esplicitamente riforme «totali» o «disomogenee» (per le quali quelle tre Costituzioni istituiscono invece un procedimento ancora più difficoltoso). La nostra Costituzione – ricordai anche allora – prevede solo revisioni costituzionali «puntuali» e «omogenee», in accordo, del resto, con quanto ci insegna la Corte costituzionale in tema di referendum abrogativo. E proprio questo argomento fu esplicitato, quasi coralmente, dagli ex presidenti. Infatti, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale, il quesito, nel referendum abrogativo, deve essere «omogeneo» e «puntuale» (deve cioè riguardare una questione e solo una questione), e ciò al fine di «garantire la genuina espressione della volontà del popolo». Ma se questa conclusione vale per il referendum abrogativo di una legge ordinaria, come si può ritenere che la stessa conclusione non valga per il referendum costituzionale, nel quale la sovranità popolare ha diritto di esprimersi non meno liberamente di quanto avviene col referendum abrogativo di una legge?
Ebbene: si conceda pure, in via di ipotesi, l’omogeneità delle modifiche costituzionali proposte dal Governo Berlusconi quanto alla revisione delle disposizioni sul Presidente della Repubblica, sul Premier, sulla Camera, sul Senato e sulle Regioni (in quanto strumentali, contestualmente, alla modifica sia della forma di Stato che della forma di Governo, che per la verità sono due materie e non una…), ma che c’entrano, con queste, le modifiche della Corte costituzionale e del CSM?
Anche nel precedente articolo ho anticipato l’eventuale obiezione. In occasione della legge cost. n. 1/1997 (Commissione bicamerale per le riforme D’Alema), la maggioranza dei parlamentari si espresse in favore della legittimità delle riforme costituzionali «non omogenee»; essi ritennero infatti che tali riforme costituissero un tertium genus non disciplinato (sic!) dall’art. 138 Cost. Cosa c’è di nuovo tra quella vicenda e l’attuale?
Ebbene, in primo luogo, c’è il fatto che è proprio in quegli anni, e non prima, che la dottrina costituzionalistica, nella sua maggioranza, è venuta appoggiando la tesi qui esposta. In secondo luogo, nella precedente occasione tutti i partiti erano d’accordo per la riforma costituzionale (e anzi si previde addirittura una modifica dell’art. 138 per rendere obbligatorio il voto popolare!). Per contro, nella presente occasione, i due poli sono contrapposti e se il centro-destra insiste sulla riforma, con questi contenuti, si andrà giocoforza al referendum costituzionale «oppositivo»…
E non conviene allora allo stesso centro-destra eliminare dalla riforma quelle modifiche più eterodosse e sballate (come quelle relative alla Corte costituzionale e al CSM) che sono le più idonee a trascinare nel fallimento anche il resto? Anche questo fu sottolineato in quella tavola rotonda.