1 – In occasione dell’ormai imminente consultazione popolare del 12 e 13 giugno, che vede il corpo elettorale chiamato ad esprimersi in merito a quattro quesiti inerenti altrettanti aspetti della legge 19 febbraio 2004, n. 40 in materia di procreazione medicalmente assistita, si è riaccesa la disputa (non nuova) sulla legittimità, alla stregua della lettera e dello spirito della Costituzione, dell’appello per l’astensione. Già in precedenti appuntamenti referendari si era avuta una diversità di vedute sul problema da parte della dottrina e di commentatori vari, soprattutto da quando ha preso avvio quella che è stata definita «ondata astensionista», la quale tra il 1997 e il 2003 ha vanificato ben quattro appuntamenti consecutivi con le urne1). Tuttavia stavolta la conflittualità sul punto appare sensibilmente maggiore, in virtù del fatto che i contrari all’abrogazione delle disposizioni coinvolte – decidendo di avvalersi ex ante della previsione di cui all’articolo 75 Costituzione, in base alla quale la deliberazione referendaria non è valida se non ha partecipato al voto la maggioranza degli aventi diritto – anziché schierarsi per il “no” hanno optato per una linea astensionista generalizzata, con lo scopo dichiarato di impedire il raggiungimento del quorum e di far fallire la consultazione. Non più, dunque, semplici suggerimenti isolati a non recarsi alle urne (come il celebre invito balneare del 1991), ma una vera e propria campagna astensionista con tanto di comitati regolarmente costituitisi. Non si vuole qui rimettere in discussione la liceità della propaganda per il non voto relativamente al referendum, la quale sembra ormai costituire un dato acquisito in via definitiva dall’ordinamento. Si pensi solamente al seguente aspetto. In attuazione della vigente normativa sull’accesso ai mezzi di informazione durante le campagne elettorali2), l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni ha varato anche per la tornata del 12-13 giugno un apposito regolamento tendente a consentire principalmente la realizzazione di condizioni di pari opportunità tra i diversi contendenti3). A tal proposito l’art. 4, comma 2, lett. d) della legge n. 28/2000 dispone che, relativamente alla comunicazione politica radiotelevisiva, «per il referendum gli spazi sono ripartiti in misura uguale fra i favorevoli e i contrari al quesito referendario». Ebbene all’art. 2, comma 1, lett. c) del suddetto regolamento dell’Autorità, nell’elencare i soggetti ai quali il provvedimento deve intendersi riferito, accanto al comitato promotore di ciascun quesito e alle forze politiche presenti in Parlamento si ha riguardo a diverse entità collettive aventi un interesse obiettivo e specifico all’oggetto delle consultazioni e «che abbiano dato una esplicita indicazione di voto favorevole o contrario al quesito referendario, comprendendo tra i contrari anche coloro che invitano i cittadini ad astenersi dalla votazione» (corsivo ns.); per la prima volta, quindi, si fa cenno ai sostenitori del non voto, non riscontrandosi una disposizione dal tenore analogo nei regolamenti relativi alle ultime consultazioni referendarie4). Pertanto l’appello all’astensione, oltre a ricevere implicitamente un visto di piena legittimità, viene reputato dall’Autorità una posizione degna di godere delle medesime garanzie nei confronti sia della campagna per il “si” che di quella per il “no”. Dinanzi ad una simile prassi, sembra alquanto arduo continuare a nutrire dubbi circa la possibilità riconosciuta a chiunque di manifestare pubblicamente il suggerimento, unitamente al personale proposito, di non recarsi a votare. Certamente da parte di taluni si potrà continuare a ritenere che le spinte verso l’astensione siano poco in armonia con lo spirito della Costituzione e con i meccanismi della democrazia, i quali esigerebbero un confronto tra favorevoli e contrari ad una proposta, restando da parte coloro che non sono interessati ad esprimere la propria opinione. Viceversa, la tendenza (emersa negli ultimi anni ed esplosa ora riguardo ai quesiti sulla legge 40) che vede i contrari all’abrogazione schierati per il non voto, fa sì che questi ultimi «catturino» sulle loro posizioni anche coloro che si astengono per le ragioni più disparate: dalla diserzione militante e di lunga data di tutte le votazioni alla mancata comprensione piena delle questioni sul tappeto, dall’indifferenza per i temi coinvolti all’impedimento temporaneo che preclude l’esercizio del suffragio. In questo modo il vantaggio per chi intende mantenere in vita le disposizioni nei confronti di chi vorrebbe cancellarle è indubbio: ma ciò non può essere sufficiente per sostenere la scorrettezza dell’appello ad astenersi, trattandosi pur sempre di propaganda di idee, come tale garantita dall’articolo 21 della Costituzione5). Semmai la discussione può vertere su possibili rimedi a tale uso contra rationem dell’astensione. Già nel recente passato si sono avute proposte volte ad abbassare o addirittura ad abolire il quorum per la validità del referendum6); oppure si è discusso della possibilità di quantificare tale soglia di volta in volta, correlandola all’effettiva affluenza registratasi nelle ultime elezioni politiche7). In altri termini, le strade da percorrere per rilanciare lo spirito e l’utilità dell’istituto – e in particolare per fare in modo che coloro i quali nella specifica circostanza sono contro l’abrogazione non vadano a votare solo se sicuri di prevalere (diversamente preferendo, in caso di esito incerto, puntare su una più comoda e proficua astensione) – devono necessariamente essere diverse da una pretesa censura nei confronti di chi auspica spiagge affollate e seggi deserti. 2 – A questo punto, accettata l’idea che sia lecito rivolgere inviti al corpo elettorale a non recarsi alle urne, con l’obiettivo espresso di invalidare la consultazione, occorre portare l’attenzione su un aspetto che rischia di divenire di primaria importanza soprattutto in vista dello scenario che va profilandosi nel prossimo appuntamento del 12 e 13 giugno. Una volta inteso l’astensionismo come la posizione di coloro che, promuovendo il ricorso strumentale e coordinato all’astensione individuale da parte dei singoli elettori, perseguono il fine del mancato raggiungimento del quorum e la conseguente nullità del referendum, riconoscendo piena cittadinanza a siffatta arma politica si deve concludere che gli esiti teorici della votazione cui le forze in campo possono tendere e su cui vanno a confrontarsi non sono più due, come nella configurazione genetica dell’istituto, bensì tre: se si raggiunge il quorum e prevalgono i “si”, la disposizione è abrogata; se si raggiunge il quorum e prevalgono i “no”, la disposizione resta vigente, per di più legittimata dal responso popolare; se il quorum non è raggiunto il referendum non è valido qualunque sia il risultato e la disposizione è comunque momentaneamente salva. Tuttavia, in un contesto nel quale la seconda delle ipotesi menzionate risulta di difficile avveramento, a causa del consistente riversarsi dei contrari nelle fila degli astenuti, il superamento o meno, nel numero dei votanti, della fatidica soglia del 50% più uno degli aventi diritto diviene l’indicatore principale cui guardare per conoscere dell’esito della consultazione e, in definitiva, dell’abrogazione o meno della norma. La storia recente dell’istituto insegna che quando non si è arrivati al quorum, la percentuale dei “si” è sempre stata nettamente maggioritaria8), quindi, in sostanza, è il numero dei votanti che in casi simili attribuisce la vittoria a uno degli schieramenti contrapposti. Quanto detto non può che avere una conseguenza lampante: contrariamente a quanto avviene di norma in tutte le votazioni, nel referendum abrogativo durante lo svolgimento delle operazioni di voto non devono essere resi pubblici i dati relativi all’affluenza alle urne. Ciò potrà essere fatto solo alla chiusura dei seggi, dovendo considerarsi il numero dei votanti, visto il particolare significato assunto, investito dal rituale «silenzio elettorale». 3 – Si cercherà ora di spiegare meglio le ragioni poste alla base dell’affermazione appena formulata. Se si rivolge l’attenzione alla disciplina della propaganda elettorale e alle regole, sviluppatesi soprattutto in tempi recenti, riguardanti l’accesso ai mass media durante la campagna elettorale e la diffusione di informazioni da parte degli stessi, può cogliersi come tra gli intenti che muovono il legislatore in tale ambito vi sia la garanzia della libertà dell’elettore. L’articolo 48 della Costituzione definisce il voto «personale ed eguale, libero e segreto». Il voto è libero innanzitutto quando non è determinato nella sua espressione da nessuna forma di pressione o coartazione della volontà in direzione di una certa scelta. Ma per essere libero, il voto non deve neppure essere inquinato da forme di condizionamento e di suggestione che vadano ad orientare l’elettore più per impulso che per una riflessione consapevole, come generalmente sono gli input trasmessi immediatamente a ridosso dell’esercizio dell’opzione. È questo il motivo fondamentale per cui la legge impone lo stop alla campagna elettorale alla vigilia della votazione, così da favorire una decisione il più ponderata possibile da parte dell’elettore, evitando influenze dovute ad intromissioni dell’ultima ora9). E sempre in base alla medesima ratio il legislatore ha provveduto a vietare la diffusione, nei quindici giorni precedenti la data delle votazioni, dei risultati di sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori10). Ci muoviamo, quindi, nel campo di quelli che sono stati inquadrati come «limiti derivanti dalla necessità di valutare, di consentire o di precludere quelle forme di libertà di manifestazione del pensiero che, in previsione ed in occasione del voto, si risolvono in azioni di influenza sugli orientamenti degli elettori»11). Si badi, peraltro, che nel caso dei sondaggi non ci si trova dinanzi ad una vera e propria forma di propaganda, consistendo gli stessi tecnicamente in un insieme di dati, anche se dall’evidente significato politico; il legislatore ha così ritenuto che anche la conoscenza di taluni dati in prossimità dell’apertura dei seggi può essere causa di un condizionamento incontrollato e come tale da evitare. Nella specie, un certo quadro delle preferenze disegnato dal sondaggio potrebbe indurre fette di elettorato a rivedere i propri intendimenti unicamente in virtù delle informazioni trasmesse, andando al limite queste ultime a sovrapporsi (anche solo per una sequenza temporale) a valutazioni ben più razionali di quanto non siano quelle fondate sulle opinioni di un campione di intervistati. Alla luce di quanto detto, occorre interrogarsi sull’influenza che può dispiegare sugli elettori la conoscenza, durante lo svolgimento di un referendum abrogativo, del dato parziale sul numero dei votanti. Naturalmente il caso che qui interessa maggiormente è quello in cui la consultazione avvenga all’insegna del «battiquorum»12), circostanza che generalmente si accompagna ad inviti più o meno diffusi all’astensione. A tal proposito sembra potersi sostenere che la conoscenza della percentuale di affluenza alle urne in determinati momenti delle giornate elettorali (ossia quando si procede presso le singole sezioni alla rilevazione dei dati, poi aggregati e resi noti dal Ministero dell’Interno) può senz’altro provocare scostamenti improvvisi dell’elettore rispetto all’intenzione maturata alla vigilia. Si consideri qualche esempio relativo a situazioni che potrebbero verificarsi. Poniamo che la domenica sera, alla chiusura dei seggi, venga comunicata dal Viminale e resa pubblica attraverso i mezzi di informazione una bassa affluenza, diciamo attorno al 20-25% degli aventi diritto. A quel punto è probabile che una parte (impossibile stabilire quanto ampia) degli elettori che avevano programmato di recarsi al voto nella giornata di lunedì finiscano per desistere dal proposito, ritenendo ormai compromessa la riuscita del referendum e pertanto inutile l’esercizio del proprio diritto. D’altra parte un atteggiamento di questo tipo, qualora avesse una diffusione consistente, potrebbe risultare determinante per il mancato raggiungimento del quorum ed il procedimento nel complesso ne uscirebbe falsato. Né può controbattersi che la decisione di non votare l’indomani sia stata presa da ciascun soggetto autonomamente, se solo si tiene presente il significato ampio dell’attributo «libero» riferito al voto dall’art. 48 Cost. E del resto nessuno avrebbe il coraggio di sostenere la regolarità di un turno di ballottaggio nel bel mezzo del quale, attraverso qualche misterioso stratagemma, si venisse a sapere che uno dei due candidati è notevolmente in vantaggio rispetto all’altro. Ancora un esempio. Si ipotizzi che la domenica alle 22 sia resa nota una percentuale di votanti (poniamo il 35-40%) che può lasciare presagire – anche attraverso raffronti con precedenti referendum – che il quorum alla fine sarà raggiunto. Alla riapertura delle operazioni il lunedì mattina, il fronte dell’astensione potrebbe spaccarsi, decidendo una parte di esso di recarsi a votare “no” e persistendo una restante frazione nella scelta di astenersi. Cosicché i primi contribuirebbero con ogni probabilità al raggiungimento del quorum, senza tuttavia riuscire ad essere maggioranza e favorendo così la vittoria dei “si”. Ma non sono da escludersi neppure vere e proprie tattiche di gara: gli astensionisti, infatti, potrebbero addirittura organizzarsi nel senso di essere pronti a trasformare in massa il proprio non voto in un “no” qualora i dati provvisori sull’affluenza alle urne dovessero rafforzare le chance di raggiungimento del quorum. Naturalmente una simile strategia dovrebbe essere dettata in anticipo, non essendo ammessi, ad operazioni in corso, pubblici appelli pure all’apparenza neutrali del tipo «si vada a votare», i quali, se provenienti ad esempio da un Comitato per l’astensione, significherebbero chiaramente «si vada a votare “no”». In definitiva, in una competizione di questo tipo, nella quale si fronteggiano da una parte i sostenitori del “si” e dall’altra i “sabotatori” del quorum, la percentuale dei votanti non è affatto un dato neutro, che come tale può essere fornito senza remore durante il voto; è bensì un dato politico nella fattispecie carico di significato, rappresentando l’epicentro di tutta la consultazione. Essendo inoltre una bassa partecipazione al voto (non superiore alla metà degli aventi diritto) l’obiettivo dichiarato di una delle parti della contesa, diffondere le cifre sull’affluenza alle urne equivale a fornire un risultato parziale della sfida o, se si preferisce, a ragguagliare uno dei contendenti circa l’andamento della propria performance. 4 – Un’obiezione che potrebbe essere mossa al ragionamento sin qui condotto è la seguente: il divieto di diffusione dei sondaggi, in realtà, si preoccupa di preservare la scelta del cittadino elettore dalla potenziale influenza derivante da cifre riguardo alle quali non è sempre agevole verificare l’attendibilità, stante la varietà di fonti, metodi e contenuti che caratterizzano tali indagini. Al contrario quelli sull’affluenza sono dati ufficiali, caratterizzati da sicura genuinità e veridicità, provenendo oltretutto da una Amministrazione dello Stato deputata istituzionalmente alla trasmissione di essi. Ora, è senz’altro vero che il legislatore ha tenuto ben presenti le possibili implicazioni di un sondaggio falso, inattendibile o comunque non rispondente a precisi criteri di scientificità, che, se divulgato a pochi giorni dalle elezioni, difficilmente potrà essere efficacemente confutato. Ma è pur vero che la disciplina prevista si spinge più in là. Regole a garanzia della correttezza del sondaggio, infatti, sono previste per tutto il periodo antecedente i quindici giorni prima del voto; viceversa, in quest’ultima fase opera una presunzione assoluta di inopportunità della pubblicazione del sondaggio, non superabile neanche dimostrando concretamente la massima serietà dello stesso. Questo perché a ridosso dell’espressione del voto non si vuole condizionare la libertà dell’elettore per il tramite di quelli che sono gli orientamenti generali, più o meno rappresentativi a seconda del campione interpellato e di altri elementi13). Anche di un dato oggettivamente attendibile, quindi, può essere proibita la diffusione, allo scopo di tutelare l’autodeterminazione politica del cittadino. Riflettendoci è anche il caso degli exit-polls, le rilevazioni effettuate all’uscita dei seggi elettorali su campioni solitamente abbastanza significativi, delle quali si può dire, in base all’esperienza passata, che forniscano risultati piuttosto attendibili, ma che non possono essere rese note se non dopo la chiusura delle operazioni di voto. Per quanto detto, la stessa preoccupazione dovrebbe essere fatta valere in occasione del referendum abrogativo in relazione al dato dell’affluenza, visto il ruolo chiave giocato dal quorum in questo genere di consultazione; ciò sebbene il dato si presenti con tutti i crismi dell’ufficialità. Neppure può capovolgersi la prospettiva del discorso, sostenendo che proprio in quanto dato sicuro e veritiero, elaborato da una Amministrazione pubblica, il numero di coloro che ad un certo momento hanno votato può ben contribuire a far sì che l’elettore esprima la propria opzione con maggior consapevolezza, avendo acquisito un ulteriore elemento di corretta valutazione del da farsi. Infatti uno schema analogo sarebbe applicabile a qualunque elezione popolare, laddove la conoscenza di un sondaggio altamente affidabile nell’imminenza del voto – o addirittura di un exit-poll condotto con metodi scientifici da istituti di rilevazione specializzati – potrebbe, in determinate circostanze, aiutare l’elettore a sciogliere taluni dubbi. Si pensi solo alla questione del «voto utile», particolarmente rilevante nei sistemi elettorali di tipo maggioritario. Ragionando nei termini ipotizzati, sarebbe giocoforza immaginare che il cittadino elettore, magari invocando il tanto declamato diritto all’informazione, potesse pretendere, negli istanti precedenti l’espressione della preferenza, proprio la conoscenza di ciò che la legge provvede ad oscurare ovvero gli orientamenti politici generali ricostruiti mediante rilevazioni statistiche È evidente, al contrario, come l’ordinamento privilegi, rispetto alla pur possibile utilità di tali notizie, le opposte esigenze legate ad una scelta maturata dopo una riflessione attenta ed incentrata sui contenuti e al contempo libera da sviamenti dettati dall’acquisizione, nel rush finale della campagna elettorale, di cifre e dati riferiti esclusivamente alle tendenze generali. La ratio sottesa alla disciplina de qua, poi, esprime il proprio culmine nel silenzio elettorale, che scatta alle ore 24 del penultimo giorno precedente quelli delle votazioni e perdura fino alla chiusura dei seggi; le uniche informazioni sull’andamento del voto e sull’orientamento degli elettori che ad urne aperte possono essere fornite pubblicamente sono quelle relative alla percentuale provvisoria dei votanti, redatte a cura del Ministero dell’Interno. Tuttavia, per le considerazioni svolte poc’anzi, è da ritenersi che nel referendum abrogativo – soprattutto alla luce delle connotazioni (anti-)partecipative che l’istituto ha da qualche tempo assunto in Italia – sia opportuno non divulgare il numero degli elettori già entrati in cabina ad un dato momento, per via della centralità rivestita dall’elemento del quorum. Diversamente, la situazione che verrà a crearsi anche i prossimi 12 e 13 giugno avrà del paradossale: è vietato condizionare l’elettore nei quindici giorni antecedenti la consultazione, attraverso sondaggi che indichino la percentuale di coloro che hanno intenzione di recarsi ai seggi (poiché la relativa norma parla di «sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori» e, nella particolare circostanza, anche l’astenersi o meno rappresenta un orientamento politico e di voto); sarà però consentito, durante lo svolgimento delle operazioni, comunicare allo stesso elettore che alla fine della prima giornata ha votato solo una piccola parte degli aventi diritto, che operando un raffronto con i referendum del passato si suppone che il quorum quasi certamente non sarà raggiunto, che pertanto il voto che egli intende esprimere nella seconda giornata sarà probabilmente vano. In sintesi, purché lo si faccia con dati ufficiali, è lecito indurre all’astensione. 5 – È opinione condivisa che in una democrazia, in quanto regime caratterizzato dal controllo da parte dell’opinione pubblica, la trasparenza deve essere la regola ed il segreto l’eccezione. Tale eccezione peraltro non può sorgere arbitrariamente, ma deve scaturire dalla necessità di non arrecare offese a beni tutelati dall’ordinamento; cosicché «la predisposizione di norme legislative che impongono limiti alla divulgazione di informazioni, nell’ambito di settori ben determinati, corrisponde ad una esigenza di salvaguardia di interessi costituzionalmente garantiti»14). Nella fattispecie che ci occupa, la mancata diffusione durante le votazioni dei dati relativi all’affluenza alle urne sarebbe rispondente all’obiettivo, già fatto proprio dal legislatore in altre norme, di non turbare l’autodeterminazione dell’elettore e quindi di non compromettere la libertà del voto sancita dall’articolo 48 della Costituzione. Inoltre non di vera e propria censura potrebbe parlarsi, trattandosi in realtà di un semplice differimento della trasmissione delle cifre, che sarebbero comunque conoscibili alla chiusura dei seggi. Resta da vedere se un’ipotesi del genere sia immediatamente praticabile, configurandosi pur sempre una limitazione della facoltà (che, in forza di taluni principi, può essere considerata nello stesso tempo dovere) di un’Amministrazione dello Stato di rendere note determinate informazioni in proprio possesso. Soffermandoci sulla già citata legge n. 28/2000, all’art. 9, disciplinante la comunicazione istituzionale, si dispone che «dalla data di convocazione dei comizi elettorali e fino alla chiusura delle operazioni di voto è fatto divieto a tutte le amministrazioni pubbliche di svolgere attività di comunicazione ad eccezione di quelle effettuate in forma impersonale ed indispensabili per l’efficace assolvimento delle proprie funzioni». L’interrogativo da porsi pertanto è il seguente: la diffusione in alcune fasi della votazione, attraverso i mezzi di informazione, della percentuale provvisoria dei votanti (e non, si badi, la materiale raccolta dei dati) è da ritenersi un’attività indispensabile per un efficace svolgimento dei compiti attribuiti al Ministero dell’Interno in materia elettorale? Se, come si crede, la risposta è negativa, la disposizione citata costituisce un valido fondamento normativo all’estensione del silenzio elettorale anche al dato dell’affluenza alle urne. Non va tuttavia taciuto il dubbio che la norma si riferisca alla comunicazione istituzionale in senso stretto, rimanendo esclusa la mera informazione istituzionale, alla quale il dato in questione pare doversi ricondurre15). Di contro, nessuna disposizione normativa prescrive specificamente la pubblicità del numero parziale dei votanti, limitandosi la legge ad attribuire all’Amministrazione dell’Interno la materia dei servizi elettorali e in particolare ad affidare le funzioni di raccolta, gestione e pubblicazione dei dati delle consultazioni elettorali alla Direzione Centrale per i Servizi Elettorali (nell’ambito del Dipartimento Affari Interni e Territoriali); la concreta organizzazione di tali servizi è dunque rimessa a norme di organizzazione interna, circolari e prassi consolidate16). Nulla impedisce, dunque, che si pervenga fin dal voto dei prossimi 12 e 13 giugno ad attuare quella conclusione univoca cui la coerenza stessa del sistema conduce: ovvero che in occasione di un referendum abrogativo (e finché il medesimo sia ancora in corso) l’Ufficio Stampa e Comunicazione del Ministero dell’Interno – che è ufficio di diretta collaborazione con il Ministro – nell’esercizio della propria attività di informazione, svolta curando i collegamenti con gli organi di stampa, debba astenersi dal rendere pubblico il numero dei votanti, così da evitare distorsioni nel pronunciamento popolare.