Privatizzazione dello Stato e stato della democrazia in Italia e negli Stati Uniti


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La competizione ha dimostrato che in politica, come in molti altri campi della vita moderna, il denaro batte tutto1.

1. Una nuova logica di selezione delle leadership politiche

Nella prima parte di questo intervento cercherò di discutere due questioni, tra loro connesse. La prima riguarda il rapporto tra la democrazia e il denaro. Vale la pena di domandarsi per quali ragioni il popolo si affidi ai magnati, spesso non ignorando che si tratta di persone di dubbia moralità, mosse da interessi diversi, quando non opposti, a quelli della collettività. La seconda questione concerne il ruolo svolto in democrazia dal pluralismo informativo. Si tratta di chiedersi, in particolare, se l’assenza di pluralismo sia causa della prevalenza di oligarchie economiche o effetto di essa o entrambe le cose.
Tentare di rispondere a queste due domande è utile perché aiuta a focalizzare aspetti non marginali dell’odierna crisi della democrazia occidentale. Nella seconda parte accennerò a questa problematica, sottolineandone l’ampiezza e la portata: mostrando come non sia qui in gioco una patologia solo italiana e come il tornante nel quale ci troviamo registri significative analogie con la fase storica che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento segnò la più grave regressione autoritaria della storia contemporanea.

In prima approssimazione, si può osservare che la lunga storia della democrazia presenta un ricorrente paradosso. In ogni epoca il démos si è affidato di buon grado al suo opposto, costituito da oligarchie o da capi carismatici (da dittatori democratici, per riprendere la definizione coniata da Luciano Canfora nel suo recente studio su Giulio Cesare). In contesti, con modalità e per motivi molto diversi tra loro, il convergere del consenso popolare su ristrette élite o su figure carismatiche è una circostanza frequente nei regimi democratici, un tratto che – lungi dallo stemperarsi – appare semmai sempre più marcato via via che, tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del secolo scorso, la società di massa diviene una realtà concreta. Tuttavia, se la propensione verso soluzioni oligarchiche o carismatiche costituisce un elemento ricorrente di lungo periodo, nell’ultimo scorcio del Novecento qualcosa è cambiato in profondità nella logica costitutiva di tali processi involutivi. In questi ultimi dieci-quindici anni si è verificato un radicale mutamento in relazione alla accresciuta influenza del fattore economico ai fini della selezione delle leadership. Valgano pochi esempi.
Né Luigi Bonaparte né Mussolini, né Bismarck né Hitler, né Stalin né Roosevelt e nemmeno Churchill si avvalgono di una particolare ricchezza ai fini della propria ascesa politica. La loro selezione è squisitamente politica (nei ranghi del partito, nei movimenti sociali, nelle corti, nella struttura dell’aristocrazia o nell’amministrazione statale). Questo è vero, a maggior ragione, per le classi dirigenti delle democrazie liberali e delle socialdemocrazie del secondo dopoguerra, quando la scena politica è stabilmente occupata dai grandi partiti di massa e dalle grandi organizzazioni sindacali. Poi qualcosa cambia, nel senso evocato, a far data dal «biennio assiale» 1989-91, allorché giungono a maturazione i frutti della rivoluzione conservatrice thatcheriano-reaganiana e del collasso dell’ordine bipolare (mi soffermerò più avanti su talune implicazioni di questa periodizzazione). Le fortune politiche di Berlusconi in Italia sono solo il paradigma di un mutamento nella logica di selezione delle leadership democratiche avvenuto, in forme meno appariscenti, in molti altri paesi occidentali. Vediamo alcune caratteristiche di tale mutamento sul terreno immediatamente fenomenologico.

Riflettendo in termini generici, si può sostenere che il costituirsi della sfera politica a partire dall’elemento economico sia un dato costitutivo e perenne della modernità borghese. Lo Stato, il sistema istituzionale, le molteplici articolazioni della rappresentanza riflettono sempre, in forme più o meno immediate, l’organizzazione sociale e in primo luogo la gerarchia immanente alle dinamiche riproduttive. Da questo punto di vista, la narrazione contrattualistica (stando alla quale la «società civile», alle prese con conflitti laceranti, si sarebbe spoliticizzata, conferendo allo «Stato» il monopolio della sovranità e riservando a se stessa – «sistema dei bisogni» – la cura delle attività economiche) appare come la più ideologica delle finzioni. In gioco vi sono (come ebbe a notare già il giovanissimo Marx) la legittimazione del politico come istanza super partes e la trasfigurazione della sfera sociale come luogo autosufficiente di espressione delle capacità e dei talenti personali. Di quale potenza egemonica disponga tuttora questo schema è prova l’intramontabile pervasività della vulgata liberista, stando alla quale l’ambito delle relazioni economiche sarebbe dotato di autonomi dispositivi di regolazione e di riproduzione.
Ma se queste considerazioni generali conservano un’indubbia validità, sarebbe nondimeno sbagliato sommergere tutte le fasi dello sviluppo storico in un continuum monotòno. In realtà, le connessioni tra sfera sociale-economica e ambito politico-istituzionale mutano, nel corso del tempo, per forma ed intensità. Il fenomeno a cui oggi è dato assistere segna un salto di qualità su questo terreno. Non siamo più alle fisiologiche ripercussioni del fatto sociale sulla politica, ma – complice l’aumento esponenziale dei costi della politica – alla conquista immediata della sfera politico-statuale da parte di determinati settori della cosiddetta «società civile» per mezzo, appunto, del denaro, elemento chiave della riproduzione sociale borghese. Cogliamo portata e specificità di questo processo se riprendiamo l’esempio delle leadership selezionate su base politica. Quando un dirigente di partito (e analoghe considerazioni potrebbero essere svolte in relazione a dirigenti sindacali o a funzionari pubblici) viene eletto a una funzione di governo, la sua carriera si svolge lungo quegli elementi-ponte – di mediazione tra Stato e società – che sono appunto i partiti politici (o i sindacati o le varie branche del parastato e della pubblica amministrazione): ciò fa sì che la sua persona sia, per così dire costitutivamente, un luogo di sintesi tra istanze sociali (più o meno particolari) e logiche politiche (contrassegnate, almeno sul piano prescrittivo, da un carattere di generalità). Quando invece l’eletto raggiunge posizioni di potere facendo leva sulla propria potenza economica, accade che un frammento di società nudo e puro irrompe nel cuore della sfera politica, e il rischio (se non altro) è che egli vi conduca, intatto e dirompente, il carico di particolarismo che lo costituisce come attore sociale e che motiva la sua azione, non temperata da alcun’esperienza maturata in quelle istituzioni anfibie tra società e Stato che sono i partiti, i sindacati, la pubblica amministrazione ecc.

2. Farsi gli affari propri

Come vedremo tra breve, è possibile individuare nell’immediata fusione tra ricchezza privata e potere politico un aspetto rivelatore – e, al tempo stesso, una causa – dell’attuale crisi della democrazia. Prima di affrontare questo argomento, vale però la pena di soffermarsi brevemente sull’altro versante del processo, concernente le motivazioni degli elettori che dimostrano di considerare con benevolenza la conquista del potere politico da parte di un’oligarchia economica. Quali aspettative in ordine all’azione del governo attraversano quella parte di società che consacra una leadership politica immediatamente espressa dal mondo del business? E che tipo di relazione intrattiene tale platea con la propria classe dirigente?
Scontando tutti i limiti insiti nelle generalizzazioni e propri di una lettura sintomale, possiamo dire che la tendenza (coerente con un vertiginoso deperimento della dimensione civica, quando non anche civile) è verso una delega in bianco sui terreni della politica classica (a cominciare dalla politica estera, per passare al terreno delle questioni istituzionali e delle articolazioni fondamentali del welfare, inteso come luogo costitutivo ed espansivo della cittadinanza) e al contempo verso una pressante richiesta di benefici economici, da realizzarsi – a seconda dei casi e dei soggetti – per mezzo di misure fiscali (esenzioni, manovre sulle aliquote, sdoganamento di capitali all’estero, ecc.), regalìe (condoni, fiscalizzazioni, finanziamenti pubblici, relazioni privilegiate con organi della pubblica amministrazione, conferimento di appalti, ecc.), privatizzazioni, de-regolazione delle relazioni industriali, giù giù sino all’elemosina di qualche decina di euro a beneficio delle pensioni sociali. In una battuta si potrebbe dire che si elegge il businessman (al di là di tutte le riserve sul metodo che egli ha applicato per accumularlo, si tende a ritenere che la misura del patrimonio testimoni capacità imprenditoriale) per potersi fare in pace gli affari propri e anzi per incrementarli, complice la presunta condivisione di interessi fondamentali e di una comune concezione della vita e della relazione sociale. La dimensione collettiva – civile in senso proprio – è del tutto esclusa da un siffatto orizzonte di interessi, proprio di una platea elettorale costituita da «famiglie familiste»2, privatizzate e sovente passivizzate da un massiccio consumo di programmi televisivi.
Sarebbe difficile negare che tale quadro presenti una notevole coerenza all’insegna del trionfo della dimensione privata, del particulare di guicciardiniana memoria. Da un lato, la «società civile» dichiara di volersi astenere dalla politica e formalizza tale proposito con la scelta di leadership che in tempi ancora recenti sarebbero state definite «tecniche», selezionate dal mondo dell’imprenditoria. Queste, per parte loro, confermano il proprio connotato «impolitico» dedicando gran parte delle loro energie alla tutela degli interessi economici del proprio elettorato. Si direbbe un tranquillo accordo tra privati, cementato dalla spontanea consonanza degli obiettivi e incapace, di per sé, di arrecare nocumento a terzi. Peccato che, dietro tali apparenti armonie, la sostanza delle cose sia affatto diversa. Nulla è più politico – in forme perverse – della privatizzazione delle risorse pubbliche, e non rappresenta certo una sufficiente consolazione il fatto che, simile a una nemesi, il patto in questione si ritorca anche contro uno dei contraenti: quell’area sociale che sceglie di servirsi della politica per farsi – letteralmente – gli affari suoi, e che in gran parte, presto o tardi, si accorgerà di essersi posta in mani inaffidabili: quelle di un manipolo di affaristi, appunto, che calibrano l’azione di governo rispetto ad obiettivi di breve, coerenti con il loro interesse privato (anche quello della rapina del patrimonio collettivo, ivi compresi i beni storico-artistici e ambientali)3, e che quindi trascurano programmaticamente le scelte strategiche – sul piano delle politiche economiche e sociali e degli investimenti strutturali – che sole possono garantire lo sviluppo di un paese e della sua economia.

Possiamo, a questo riguardo, abbandonare per un momento il piano astratto e fare un esempio concreto. L’argomento di cui stiamo trattando è legato al tema del conflitto di interessi, divenuto scottante nel nostro paese da quando Silvio Berlusconi – già proprietario di un impero finanziario e mediatico e titolare di concessioni pubbliche (appunto nel campo del sistema televisivo) – è «sceso in politica», tra l’autunno del 1993 e il gennaio del ‘94, conquistando rapidamente la ribalta nazionale. Il paese sta pagando a caro prezzo il fatto che a Palazzo Chigi sieda un grande imprenditore che possiede tre reti televisive (e ha quindi tutto l’interesse – economico oltre che politico – a ridimensionare il sistema televisivo pubblico)4, la più grande impresa editoriale del paese (secondo dati recenti la Mondadori controlla il 31% del mercato editoriale e il 45% del mercato dei periodici)5, gran parte della raccolta pubblicitaria e innumerevoli aziende attive nel settore assicurativo, finanziario, cinematografico, sportivo e della new economy. Le istituzioni, la Costituzione della Repubblica e la stessa democrazia italiana stanno correndo serissimi rischi per il fatto che questo grande imprenditore, divenuto per la seconda volta capo dell’esecutivo, ha per di più una storia personale quanto mai discussa come dimostrano le frequenti disavventure giudiziarie che l’hanno ripetutamente condotto sul banco degli imputati sotto il peso di gravissime accuse6. Ma tali evidenze sono di per sé sufficienti ad affermare con sicurezza che questi problemi tocchino la coscienza della maggioranza degli italiani? Che il conflitto di interessi del presidente del Consiglio e di tanti suoi stretti collaboratori allarmi una componente non minoritaria della nostre società? Che vi siano una percezione diffusa dei rischi rappresentati da una inedita concentrazione di poteri nelle mani di un individuo e, ancor più, una avversione prevalente nei confronti di chi occupa altissime cariche istituzionali senza disporre dei minimi requisiti morali necessari a rivestirle?
Indubbiamente l’attuale presidente del Consiglio attraversa al momento (estate-autunno 2003) una crisi di popolarità, ma non è affatto certo che essa derivi da questo genere di faccende e non invece dalle difficoltà economiche generali del paese e dalla rissosità della maggioranza che sostiene il governo. Se dobbiamo prestar fede ai frequenti sondaggi di opinione, non è possibile dire con certezza che il blocco sociale favorevole al centrodestra si stia erodendo in misura significativa e comunque non è dato ricondurre i fenomeni di smottamento del consenso alla questione morale e al conflitto di interessi che ne è una componente essenziale. Il nostro paese ha ripetutamente mostrato un’attitudine ambivalente nei confronti dei comportamenti illegali: li si depreca, ma li osserva al tempo stesso con mal dissimulata ammirazione se chi li pone in essere e ne trae vantaggio riesce ripetutamente a farla franca. Tanto più se nei suoi confronti scatta un meccanismo di identificazione che permette – se non di condividere con lui i benefici materiali dell’illegalità – di partecipare in prima persona alla inebriante rivalsa della «società civile» contro i vincoli «liberticidi» posti dalla legge.
Conviene inoltre osservare (e ciò sembra costituire un’aggravante a carico dei gruppi dirigenti dell’attuale opposizione che hanno omesso di legiferare tempestivamente su questa materia) come il conflitto di interessi si giovi di una sorta di dispositivo di autodifesa e autoconferma, in virtù del quale il soggetto in esso coinvolto può occultare le devastanti conseguenze di tali intrecci perversi servendosi a questo fine precisamente di quella concentrazione di potere economico, mediatico e politico che costituisce la patologia in questione. C’è insomma da temere che più passa il tempo, più, grazie al conflitto di interessi non risolto, Berlusconi consolida il proprio controllo sul sistema mediatico, più numerosi saranno coloro che ignoreranno questa questione o la giudicheranno irrilevante per il semplice fatto di esservisi assuefatti. Anche da questo punto di vista è pienamente condivisibile il giudizio secondo cui la legge Gasparri è la «più pericolosa» (oltre che la più palesemente incostituzionale) fra quelle sin qui concepite dalla Casa delle Libertà7.

3. Il trionfo del privato: dalla politica come semplice mezzo alla politica come fine

Siamo tornati così nuovamente all’osservazione della classe politica tratta dal mondo degli affari. Proseguendo sulla strada definita prima «fenomenologica», chiediamoci quali effetti possiamo registrare della regressione democratica che crediamo di poter descrivere nei termini di una privatizzazione (o ri-feudalizzazionedella delega politica, in virtù della quale si consente che un magnate si installi, insieme alla sua corte di famigli, nel cuore dello Stato.
Grosso modo possiamo individuare due ordini di conseguenze, la cui sequenza riflette, per così dire, una tensione verso la politica, che coinvolge inesorabilmente (e pericolosamente) le forme della statualità. In prima istanza – lo si diceva da ultimo – il magnate prestato alla politica bada ai fatti propri: la politica – il potere – è in questa fase essenzialmente uno strumento al servizio delle sue imprese e degli interessi speculativi delle lobbies industriali e finanziarie di riferimento. In taluni casi questa dimensione di “servizio” concerne anche le vicende giudiziarie dell’imprenditore-politico e dei suoi compagni di cordata eventualmente alle prese con guai giudiziari. Su questo terreno si collocano le decisioni più strettamente connesse agli interessi patrimoniali e imprenditoriali dei governanti e della loro immediata committenza (in specie: normative fiscali, legislazione relativa alle relazioni industriali e di lavoro, privatizzazioni di beni e servizi, appalti), nonché gli interventi di manomissione dell’ordinamento giuridico dettati dalle alterne fortune giudiziarie dei potenti e dei loro più prossimi sostenitori. Questi primi aspetti legittimano un’analogia con le cosiddette Repubbliche delle banane, nelle quali lo Stato è solo una parvenza, una sottile copertura del sistema affaristico di ristrette oligarchie.
La prima preoccupazione dell’imprenditore-politico è dunque, di norma, la tutela degli interessi economico-finanziari suoi propri e di quelli del suo entourage. La logica del suo agire è, in questa fase, quella propria dell’investimento economico: la politica costa moltissimo (il che contribuisce a selezionare le classi dirigenti su base censitaria) ma può rendere ancor di più in termini di tutela degli interessi privati di chi occupa posizioni di potere. Sarebbe tuttavia riduttivo fermarsi qui, illudersi che la conquista del potere politico esaurisca la propria ragion d’essere nella protezione di un sistema di affari e nella tutela del suo dominus. Un secondo passo sarà prima o poi fatalmente compiuto, un passo che, nel condurre alle ultime conseguenze il processo di privatizzazione della relazione politica, destabilizzerà in radice l’assetto istituzionale e snaturerà la sfera politico-statuale, determinando la negazione della sua connotazione pubblica.
Poste le premesse per un’efficace tutela dei propri interessi economici, l’imprenditore prende gusto alla politica, che non si limita più ad essere uno strumento per far soldi (o per evitare il carcere), pur restando assai utile a questo scopo. A questo punto c’è anche dell’altro. Fare politica è sempre più anche un fine, perché procura un valore prima insospettato e adesso sempre più apprezzato: accanto ai soldi, si fa avanti il potere. O meglio: accanto al potere dei soldi, si comincia ad apprezzare lo specifico potere dispensato dal controllo degli apparati statuali, un potere che eccede i limiti delle relazioni mercantili e della subordinazione privata e personale, per coinvolgere rapporti collettivi, impersonali, anonimi. Adesso si tratta di promuovere forme più efficaci di controllo sociale e di modificare l’architettura stessa del sistema istituzionale, in modo da agevolare l’esercizio dell’autorità da parte dell’imprenditore-politico e da propiziarne la permanenza al potere.
Questo sviluppo si realizza principalmente attraverso tre ordini di provvedimenti: (1) una più o meno decisa stretta repressiva nei confronti delle aree del dissenso sociale e politico e della marginalità (ma qui si baderà a non affrontare in modo serio taluni problemi – per es. quello della tossicodipendenza – al fine di disporre di durevoli terminali di sfogo verso cui convogliare ansie e frustrazioni diffuse); (2) la costituzione di un sistema di controllo, quanto più vasto e ferreo, degli strumenti di comunicazione, informazione, pubblicità (tale da consentire non solo la deformazione dei fatti, ma la creazione ex novo di realtà virtuali: si pensi – per intendersi – alle «armi di distruzione di massa» di Saddam Hussein e, si parva licet, all’affaire Telekom Serbia); infine (3), allo scopo di conferire stabilità ai risultati conseguiti per mezzo dei primi due passaggi, il ridisegno delle regole e degli assetti istituzionali (sistemi elettorali; prerogative delle cariche pubbliche; struttura e attribuzioni delle articolazioni funzionali e territoriali dello Stato) volto a perpetuare il potere dell’imprenditore-politico: l’elezione diretta (plebiscitaria) del «capo del governo» metterà pienamente a valore il controllo sul sistema mediatico; un forte accentramento di potere nelle mani dell’esecutivo (tale da abolire, in sostanza, l’autonomia degli altri poteri costituzionali indipendenti) ottimizzerà il rendimento, sul terreno politico, di un cospicuo investimento economico.
A questo punto la regressione patrimonialistica avrà prodotto una mutazione nelle forme di legittimazione delle leadership e nei sistemi di organizzazione del consenso. La personalizzazione del ruolo politico, che offre all’individuo incaricato di funzioni dirigenti crescenti opportunità di finalizzare l’esercizio del potere all’affermazione dei propri interessi personali (privati), informa di sé anche le strutture dei partiti e dei movimenti politici e la logica delle relazioni che le diverse organizzazioni politiche intrattengono con la propria base di massa (intendendo con ciò non soltanto le rispettive quote di elettorato, ma anche, più in generale, le aree sociali di riferimento, dalle quali le singole organizzazioni ricevono riconoscimento anche in forme diverse dal consenso elettorale). I partiti e i movimenti si riorganizzano in funzione della massima visibilità dei «capi», divenuta un valore prioritario nella competizione politica. A sua volta, l’immagine del «capo» politico – costruita in base ai dettami della pubblicità e del marketing – acquista maggiore rilevanza rispetto alle basi programmatiche dell’organizzazione, il che accresce a dismisura i margini di discrezionalità del suo personale agire politico. Tutto ciò sortisce due effetti fondamentali, convergenti nella regressione autoritaria dello Stato.
Da un lato, sul versante delle garanzie democratiche, questo processo drammatizza in misura inedita (o meglio: in un modo che ricorda da vicino la relazione tra personalità carismatiche e folla nei regimi totalitari dell’Europa degli anni Trenta) la questione del controllo del sistema delle comunicazioni di massa. Occorre potere affidare, senza tema di interferenze critiche, messaggi semplificati, ad elevato tasso propagandistico, sovente privi di riscontri o addirittura in palese contrasto con l’evidenza dei fatti. Privato in misura rilevante della sua autonomia, il sistema mediatico tende a disperdere il carattere di strumento informativo in senso proprio, per recuperare la fisionomia della cassa di risonanza degli interessi e dei soggetti prevalenti che gli è propria in assenza di democrazia. In secondo luogo, in virtù di questa trasformazione la comunicazione politica cambia di segno. Cessa di essere un dialogo tra dirigenti e diretti intorno ai problemi e ai bisogni della collettività: cessa cioè di contribuire, attraverso una rappresentazione veridica della complessità del quadro sociale, dei processi e dei conflitti in atto, alla elaborazione collettiva di soluzioni pertinenti. E diviene, per contro, sempre più simile a una predicazione populistica nutrita di generiche promesse e minacciose evocazioni (c’è sempre un nemico all’orizzonte, alle porte o infiltrato, straniero e irriducibilmente «altro»), sostenuta dalla ricorrente – e ricattatoria – mozione degli affetti, e intessuta di ammiccamenti agli spiriti animali dell’individualismo nel segno di un’irridente critica alla legalità e alle istituzioni, ridotte al rango di inutili bardature.
Qui si instaura la sindrome del populismo autoritario, attuale minaccia della democrazia occidentale. Scelto, in base ai diversi sistemi elettorali, quale espressione della maggioranza degli elettori, il «capo» dell’esecutivo muove contro la polifonia dei poteri costituzionali allo scopo di accreditarsi come esclusivo depositario della legittimazione, come unico detentore di potestà decisionale e come incarnazione del «popolo sovrano». Il quale a sua volta, ridotto a massa omogenea (giusta la concezione plebiscitaria della scelta democratica), è chiamato a riconoscere nel «capo» l’interprete autentico della sua volontà: dunque – senza riguardo a procedure e a contenuti della decisione – la fonte vivente della legge.
Una volta compiuto anche questo passaggio, l’approdo del magnate alla politica avrà dispiegato il suo fondamentale effetto regressivo. Lo Stato sarà cambiato e con esso sarà cambiata anche la politica, che avrà via via disperso i caratteri della partecipazione e persino le funzioni della rappresentanza, per ridursi a una relazione essenzialmente asimmetrica di subordinazione, di controllo e di sfruttamento, sia della forza-lavoro che delle risorse economiche. La società regredirà a puro mercato di consumo di merci materiali e immateriali: i giocattoli per bimbi di ogni età che affollano i sempre più grandi e numerosi centri commerciali delle nostre città, e la tv-spazzatura, veicolo di ideologie e di sogni di evasione. Giunti a questo punto, nemmeno l’analogia con la Repubblica delle banane è sufficiente: appare più plausibile un richiamo al colonialismo. Esclusa dalla partecipazione democratica, ridotta per buona parte a inerte e indifferente area di sfruttamento, la società diviene colonia di uno «Stato» a sua volta trasformato in un centro di potere organicamente privatizzato8. La rilevanza di tale sviluppo emerge appieno ove si consideri come lo stesso Gramsci – pur consapevole della capacità egemonica del regime fascista, cioè della sua attitudine a sviluppare funzioni di direzione politica della società italiana – nondimeno individuasse nella totale privatizzazione dello Stato un connotato essenziale del fascismo, che gli appariva in sostanza come un ossimoro storico: come il risultato della più organica ibridazione tra interessi privati e sfera pubblica9.

4. Un «nuovo fascismo»?

Quest’ultimo accenno al fascismo rischia di creare un equivoco. Molto spesso, di fronte alla regressione autoritaria di sistemi democratici, viene istituito il confronto con quello che fu, nella prima metà del secolo scorso, l’archetipo dei regimi «totalitari». Si è parlato di fascistizzazione a proposito della caccia alle streghe nell’America di McCarthy, se ne è parlato, a maggior ragione, nel caso dei regimi militari imposti da colpi di Stato in Grecia, in Cile, in Argentina. È una querelle destinata a trasferirsi irrisolta negli archivi, perché minata in partenza da uno scarto linguistico (tra quanti impiegano il termine fascismo come un nome proprio, riferibile soltanto all’Italia di Mussolini, e quanti invece lo considerano una categoria storica applicabile a una tipologia di regimi) tale da impedire un reale confronto tra le diverse posizioni. Non è il caso di trattarne in questa sede. Al di là delle dispute terminologiche, importa intendersi sulla sostanza delle cose. Il punto fondamentale – per la gravità della cosa e per la centralità del processo – concerne la tendenziale privatizzazione della sfera politico-istituzionale, nella quale ci sembra di potere individuare il connotato essenziale dell’odierna crisi democratica. Si tratta di un passaggio di enorme portata, tale da minacciare lo stesso processo di sviluppo della modernità, o da determinare – come già avvenne con l’avvento del fascismo e del nazismo – l’instaurarsi di una patologia della modernizzazione caratterizzata da un micidiale impasto tra moderne tecnologie del dominio e logiche feudali del comando e della riproduzione sociale.
Resta che, quando si discute del «caso italiano» nella sua attuale configurazione – ciò che anche noi qui abbiamo incidentalmente fatto – la tentazione di evocare il precedente del fascismo è fortissima, onde chiunque si occupi della questione sente il dovere di dire la sua riguardo alla appropriatezza o meno del confronto. Da ultimo, Perry Anderson ha tenuto a dire perché ogni analogia tra Berlusconi e Mussolini gli appaia implausibile10. Posto che il fascismo nacque come «risposta a una minaccia dal basso» (il pericolo di una replica nostrana della rivoluzione bolscevica) e che condizioni fondamentali del suo successo furono l’«autoaffermazione nazionalistica» e «la prospettiva di un militarismo aggressivo, capace di propiziare l’espansione territoriale dello Stato», egli sottolinea come Berlusconi non abbia «né l’esigenza, né la possibilità» di trasformarsi nella versione aggiornata di Mussolini. Secondo Anderson l’Italia non corre dunque il rischio di un «autoritarismo strisciante» basato sul monopolio dei media, tant’è vero che «l’unico obiettivo che Berlusconi ha perseguito con vera determinazione dacché è tornato al governo è il cambiamento delle leggi che avrebbero potuto creargli problemi giudiziari».
Anche se meraviglia che un illustre storico consideri il rischio di involuzioni autoritarie e il controllo pressoché monopolistico del sistema mediatico da parte del capo dell’esecutivo alla stregua di faccende distinte e separate (Brecht definì «fascismo democratico» un regime caratterizzato dal dominio dei mezzi di comunicazione di massa, e Primo Levi osservava che al fascismo si può arrivare anche senza l’uso terroristico dell’intimidazione poliziesca, «negando o distorcendo l’informazione»)11, c’è naturalmente da augurarsi che Anderson abbia ragione e che quello che il nostro paese sta vivendo sia solo una breve parentesi – almeno questa volta la metafora sarebbe calzante – destinata ad essere ben presto superata senza danni per la tenuta del sistema democratico. Nei confronti della sua interpretazione si possono tuttavia muovere due obiezioni.
La prima riguarda i provvedimenti sin qui assunti o progettati da parte del presidente del Consiglio e del governo. Non è vero che sinora Berlusconi si sia occupato solo delle faccende giudiziarie sue e dei suoi amici. Questa affermazione appare riduttiva già per quanto concerne la politica giudiziaria del governo, che passa per un sostanziale indebolimento della capacità investigativa e repressiva nei confronti della mafia e della illegalità finanziaria e per una gestione ferocemente repressiva del sistema penitenziario12 e ruota intorno al progetto (in parte già attuato attraverso il ridimensionamento del Csm) di subordinazione organica della magistratura alle direttive dell’esecutivo, con una prima sostanziale violazione del principio della separazione dei poteri. Ma la tesi di Anderson risulta opinabile soprattutto se confrontata con le azioni e le omissioni (che sono, tutto sommato, anch’esse azioni, benché in negativo) in materia di conflitto di interessi e di «riordino» del sistema delle telecomunicazioni di massa. E appare scarsamente fondata se riferita alle iniziative assunte dal governo e dalla maggioranza in materia di riforme costituzionali: iniziative – questo è il punto di gran lunga più scabroso – alla luce delle quali il confronto con altre realtà politiche, con altre esperienze e vicende contemporanee al di là dei confini nazionali, diviene ineludibile.
Si pensi alle ipotesi di riforma costituzionale adombrate dalla mini-Costituente di Lorenzago di Cadore. Già sulla procedura – che in uno Stato di diritto è sostanza, perché strumento di difesa contro l’arbitrio – ci sarebbe molto da dire. Si pretende che i quattro personaggi che hanno elaborato il pacchetto delle riforme si siano riuniti in modo del tutto informale, alla stregua di privati cittadini, senza altre pretese fuorché quella di confrontare le proprie vedute e di verificarne il grado di reciproca compatibilità. Puro sport intellettuale, insomma. Ma questa versione dei fatti ignora che i quattro «esperti» erano stati designati dalle forze politiche di governo e che del loro lavoro – sovente interrotto dalla visita di qualche importante ministro della Repubblica – gli organi di informazione sono stati tenuti costantemente al corrente. Coerentemente con uno «stile» informale di governo che vede un’abbondante produzione di appunti, abbozzi e documenti ufficiosi di incerto statuto (dove l’alibi dell’efficienza cela la volontà di forzare le regole procedurali per sottrarre a qualsiasi controllo il processo di formazione della decisione politica e amministrativa), una discussione tra privati (tale era in effetti lo statuto formale degli incontri) è stata di fatto trasformata in un atto ufficiale, destinato a influire pesantemente sul dibattito politico. Tant’è vero che con le proposte di Lorenzago tutti i partiti dell’opposizione si sono sentiti in dovere di confrontarsi prima ancora che il governo le facesse proprie senza significative modifiche. Con il risultato di fornire anch’essi un contributo al processo di espropriazione del Parlamento, in atto già da tempo per il combinato disposto degli effetti del maggioritario e dell’abusivo ricorso allo strumento delle leggi-delega.
Il discorso diventa ancora più serio se si considera il merito delle proposte elaborate dai quattro mini-costituenti. Com’è noto, esse prevedono tra l’altro (e in questo «altro» figura la interregionalizzazione del Senato, con le pesanti minacce che ne conseguono all’unità del paese e al principio di uguaglianza che la presuppone) il rafforzamento dei poteri del «Primo ministro» (al quale dovrebbe essere in sostanza conferita la potestà di sciogliere le Camere, oltre al potere di nomina e revoca dei ministri), la sua sostanziale elezione diretta (in virtù dell’indicazione del nome dei candidati premier sulla scheda elettorale) e la regionalizzazione della Corte costituzionale (con l’effetto giuridicamente e politicamente aberrante – com’è stato autorevolmente sottolineato – di determinare la rappresentatività di un organo giurisdizionale allo scopo di neutralizzare il più importante organo costituzionale posto a limite dell’arbitrio dell’esecutivo e a salvaguardia dello Stato di diritto)13. Se questo è vero, ciò che sta accadendo nel nostro paese a metà della legislatura in corso segna un deciso salto di qualità in un processo di «semplificazione» dell’architettura costituzionale teso a sancire la sostanziale espulsione del Parlamento dal circuito politico effettivo e la neutralizzazione del carattere rappresentativo dell’ordinamento: in una parola, la primazia del governo e la subordinazione di quest’ultimo alla volontà individuale del suo «capo». Non per caso si parla qui di un processo, poiché troppo spesso si dimentica che un regime non nasce all’improvviso, armato di tutto punto come Minerva dalla testa di Giove. Sorge bensì gradualmente, appunto per effetto di un processo di impregnazione delle istituzioni e delle articolazioni della «società civile» (le «trincee» e le «casematte» di gramsciana memoria), non sempre facile a cogliersi in tempo in tutta la sua portata eversiva.
Fascismo o meno, la sostanza degli accadimenti parla di una marcata tendenza verso la privatizzazione dello Stato, tanto più accentuata e inquietante perché a promuoverla è – in singolare sintonia con quanto auspicato nel celebre «Piano di rinascita democratica» del venerabile Licio Gelli14 – un multimiliardario proprietario di televisioni, giornali, case editrici e aziende di pubblicità: un personaggio troppo spesso, ancora in tempi recenti, sottovalutato, considerato con sussiego per la sua prorompente volgarità, ma in realtà capace di intuito e lungimiranza e non privo di un naturale sentimento della politica, come testimoniano un’antica intervista rilasciata a Mario Pirani nel lontano 1977 (nella quale Berlusconi già teorizza la necessità di conquistare il controllo dei media allo scopo di giocare un ruolo politico) e la stessa decisione di entrare nella P2 presa l’anno successivo. Da questo punto di vista – benché solo da questo – l’attuale presidente del Consiglio è davvero un self-made man.

5. Un «caso» non solo italiano

Ma anche se il «caso italiano» è per molti versi paradigmatico, non è intento di queste pagine fare un discorso limitato alla nostra esperienza diretta. Non è difficile mostrare come le sommarie osservazioni sin qui svolte abbiano un campo di applicazione assai più vasto e come esse si attaglino, per limitarci a un solo altro esempio, anche a una situazione cruciale come gli Stati Uniti di George W. Bush.
Dopo Ross Perot e al pari dell’attuale sindaco di New York Michael Bloomberg, il presidente degli Stati Uniti incarna una patologia della democrazia in cui il trionfo dell’elemento privatistico (nella sua duplice connotazione, familistica e patrimonialistica) svolge un ruolo di primaria importanza. Come ha ampiamente dimostrato lo scandalo dei brogli elettorali organizzati dal governatore della Florida, fratello dell’attuale presidente degli Stati Uniti15, quello dei Bush è un clan in tutti i sensi. Il potere scende per i rami famigliari, dal padre – o meglio, dal nonno, coinvolto ancora durante la Seconda guerra mondiale in oscure connessioni con il sistema militare-industriale nazista – ai due figli, a una vasta schiera di collaboratori legati al capofamiglia da rapporti di fedeltà personale. E si fonda su corpose cointeressenze nel business in settori chiave (dal petrolio al militare-industriale) strettamente legati alla decisione politica. Come è emerso sull’onda della bancarotta della Enron – il più grande crack della storia economica americana, che ha mandato letteralmente in fumo gli 80 miliardi di euro dei 25mila dipendenti, costretti a investire i propri fondi-pensione in azioni dell’impresa – la questione del conflitto di interessi non è meno cruciale e non produce effetti meno dirompenti negli Stati Uniti che nel nostro paese. Non è il caso di entrare in dettagli, basteranno pochi scarni dati.
Quando la Enron, gigante nel settore dell’energia, fallisce in conseguenza di operazioni speculative di dubbia regolarità (dicembre 2001), la magistratura cerca di risalire alle responsabilità dei reati finanziari che hanno tra l’altro consentito ai grandi manager del gruppo di speculare sulla sua situazione fallimentare. Le indagini cozzano contro un muro, grazie alla distruzione di documenti contabili da parte della società di certificazione (la prestigiosa Arthur Andersen), avvenuta, guarda caso, tra i mesi di settembre e dicembre del 2001. Viene tuttavia alla luce che la Casa Bianca era da tempo a conoscenza dell’imminente disastro del colosso energetico, al quale aveva assistito in totale inerzia. Poco dopo si scopre che la Enron era stata da sempre – sin dai tempi della corsa alla Casa Bianca di George senior – grande finanziatrice delle campagne elettorali dei Bush. Nonché sponsor di sedici membri dell’attuale governo (tra cui il vice-presidente Cheney e l’attuale ministro della Giustizia Ashcroft). E che il giovane Bush l’aveva generosamente ricompensata degli aiuti ricevuti: cambiando le leggi del Texas, quando era governatore di quello Stato, in modo da favorire i suoi affari; rifiutandosi di intervenire quando i prezzi delle forniture imposti dalla compagnia causarono i giganteschi blackout in California nell’estate del 2001; aprendo le porte dell’amministrazione e del partito repubblicano a una schiera di suoi ex-dirigenti; infine facendo finta di niente mentre il disastro annunciato si avvicinava e i dirigenti della compagnia vendevano a caro prezzo le azioni Enron destinate a divenire, di lì a poco, carta straccia.
Per quanto cospicuo, lo scandalo Enron è tuttavia solo la punta di un iceberg. Le guerre per il controllo del petrolio in Afghanistan e in Iraq hanno rivelato una fitta rete di interessi, di coperture, di reciproci favori che, se non altro per il fatto di coinvolgere direttamente alcune decine di migliaia di vite umane, fa impallidire la vicenda del colosso energetico. Cambiano i nomi (ora si tratta di Carlyle16, Bechtel, New Bridge Strategy, Halliburton e della affiliata Brown & Root), i settori di attività (prevalentemente la logistica militare, privatizzata dai tempi della prima Guerra del Golfo, e il petrolio; ma anche le armi, l’energia, la «ricostruzione» dei paesi devastati dai bombardamenti e – si sussurra – il narcotraffico), non la sostanza. Al centro delle trame è in questo caso il vice-presidente degli Stati Uniti, quel Dick Cheney, ministro della Difesa di George Bush senior, che i bene informati considerano il vero «burattinaio» della Casa Bianca. A fargli da spalla sono alcuni tra i più bei nomi dell’attuale amministrazione e dei precedenti governi repubblicani (da James Baker a George Schultz, da Caspar Weinberger a Colin Powell) o – per quanto concerne la New Bridge, neonata lobby di mediazione per le commesse della «ricostruzione» in Iraq – Joe Allbaugh, già manager della campagna elettorale di George W. Il meccanismo degli affari, che ruota intorno all’assegnazione di appalti con procedure d’urgenza (cioè senza gare pubbliche), è sin troppo semplice. Il governo decide le guerre, stabilisce la durata delle operazioni militari, pianifica le «ricostruzioni»: alcuni suoi membri eminenti – in condizione di influenzare le decisioni del governo e in possesso di importanti quote di imprese fornitrici del Pentagono di aziende costruttrici di infrastrutture civili e di società petrolifere – incassano enormi profitti. Per la sola Halliburton (che ogni anno corrisponde a Cheney, già suo amministratore delegato, un gettone-omaggio di un milione di dollari) si parla di oltre due miliardi e mezzo di dollari incassato sinora grazie all’ultima guerra contro Saddam, mentre si calcola che circa un terzo dei quattro miliardi di dollari necessari ogni mese a mantenere le truppe di occupazione in Iraq vada agli appaltatori privati17. Una torta gigantesca (vicina, sembra, ai 300 miliardi di dollari) e destinata a crescere ancora chi sa quanto, come dimostra l’ultima richiesta di finanziamenti straordinari (87 miliardi di dollari per le operazioni militari e di intelligence e per la «ricostruzione» in Iraq e Afghanistan) rivolta dal presidente Bush al Congresso nel settembre del 2003 e prontamente accolta. «La squadra Bush-Cheney ha trasformato gli Stati Uniti in un affare di famiglia», ha osservato Harvey Wasserman, autore de L’ultima guerra energetica18. Non gli si può dar torto, salvo sottolineare come ad essere trasformata in un affare di famiglia non è più soltanto la gestione di una fetta consistente della ricchezza nazionale ma la guerra stessa (cui del resto è affidata la ripresa dell’economia Usa), divenuta un business privato il cui volano si alimenta della distruzione di interi paesi e della morte pianificata di centinaia di migliaia di militari e civili.

6. L’attacco allo Stato di diritto

Quando si dice «conflitto di interessi», è bene dunque tenere presente che quella di cui oggi il nostro paese soffre in forme a tratti inquietanti, a tratti grottesche, non è affatto una patologia esclusiva, ma un corollario cruciale dell’essenza stessa del neoliberismo, in forza della quale il capitale realizza la propria vocazione totalitaria verso la completa mercificazione delle relazioni sociali e del mondo vivente. Del resto non è questa l’unica analogia tra l’Italia di Berlusconi e l’America dei Bush. Vale per gli Stati Uniti anche quanto si osservava in precedenza in relazione alla degenerazione del rapporto tra società e politica. La sostanziale apoliticità del corpo sociale è un tratto tipico della realtà nord-americana, dove la grande parte dei cittadini non legge se non la stampa locale (tabloid scandalistici), guarda la televisione per ore (senza trarne alcuna informazione sul panorama politico nazionale e internazionale), si astiene in massa alle scadenze elettorali, e accetta inerte (anzi ignara) che, formalmente ridotta ad «amministrazione», la politica assuma le decisioni effettivamente rilevanti all’interno di un perimetro ristrettissimo di attori (élite politiche, alti gradi militari, magnati e grandi manager, padroni di mezzi di comunicazione) dotati di un notevole potere sottratto al controllo democratico. Per provocatorio che possa sembrare, la grande questione democratica è oggi nuovamente il segreto, architrave dell’antico regime, al quale oggi si accompagnano – non casualmente – la manipolazione della comunicazione pubblica e la crescente capacità dei detentori del potere di frugareschedare e sorvegliare i corpi sociali (anche di altri paesi) in tutte le loro articolazioni.
A rigore, anzi, il confronto tra Italia e Stati Uniti andrebbe ribaltato, nel senso che questi ultimi sono il modello, per potenza e grado di sviluppo delle tendenze in gioco. Com’è stato giustamente sottolineato19, lo «schema dell’amministrazione Bush», con il quale l’attuale presidente del Consiglio italiano è in sintonia, insiste sul «modello amico/nemico» di ascendenza schmittiana. La logica dell’individualismo proprietario e competitivo viene a tal punto esasperata, che la società stessa cessa di costituire in quanto tale un riferimento per la politica. Il paesaggio contempla individui e gruppi e si riordina sulla base di un criterio elementare e implacabile, appunto quello della guerra. A questo punto non vi è, per l’avversario, alcun diritto di cittadinanza. Ci si muove nella prospettiva di vittorie schiaccianti, «come se l’opposizione debba sparire», lasciare il campo definitivamente. Il corpo sociale si scompone in fronti immediatamente e irriducibilmente contrapposti. La politica cambia finalità e funzioni. Dimette i caratteri della partecipazione e persino le logiche della rappresentanza, per ridursi a una relazione essenzialmente asimmetrica di subordinazione, di controllo e di sfruttamento (sia della forza-lavoro, sia della ricchezza sociale: onde la tendenziale regressione delle società a mercati di consumo di merci materiali e immateriali ad elevato plusvalore economico e ideologico). La mediazione, il compromesso, la sintesi tra istanze differenti, la ricerca di soluzioni condivise sono accantonate alla stregua di inservibili anticaglie. La coesione sociale cessa di essere considerata un valore e tanto meno un obiettivo. Le gerarchie si irrigidiscono, si blindano le frontiere (non soltanto quelle che separano Stati e aree geopolitiche, anche quelle che solcano i corpi civili), ci si affida alle tecniche della sorveglianza e dell’esclusione.
Nel caso degli Stati Uniti i sintomi di questo imbarbarimento della relazione politica e sociale sono innumerevoli. L’adozione di leggi draconiane (del tipo «three strikes you’re out»)20 ha sancito l’avvento dello Stato penale, confermato da un fortissimo incremento della popolazione detenuta, passata, nel giro di vent’anni, da 200mila a due milioni 166mila unità (un terzo delle quali costituito da afroamericani), pari all’otto per mille della popolazione totale (una percentuale che va peraltro moltiplicata per otto se riferita alle componenti sociali «a rischio»). Per quanto ideologico, lo schema della «tolleranza zero» accenna a divenire realtà in quanto dispositivo di protezione del darwinismo sociale che informa di sé la riproduzione della società statunitense. Naturalmente questa carica di violenza si abbatte in primo luogo sugli strati inferiori (neri, ispanici, bianchi poveri) e sulle componenti marginali (tossicodipendenti, disoccupati, giovani delle periferie metropolitane). Ma accenna a dilagare per effetto dell’espansione delle aree di nuova povertà (dati ufficiali relativi al 2002 parlano di poco meno di 35 milioni di cittadini statunitensi poveri – un milione e 700mila in più del 2001 – pari al 12,1 per cento della popolazione totale), dovuta a sua volta alla radicale precarizzazione di crescenti settori della working class (sono tre milioni e 300mila i posti di lavoro persi negli Stati Uniti da quando George W. Bush si è insediato alla Casa Bianca) e al processo di accentuata proletarizzazione della classe media, incoraggiato dalla drastica riduzione della spesa sociale (a beneficio dei bilanci militari e dell’offerta privata di servizi) e dalle performances negative delle Borse (dal cui andamento dipende gran parte del reddito dei lavoratori e dei pensionati)21. Ma sono ovviamente le relazioni internazionali il campo di applicazione ideale del «modello amico/nemico».

7. Il business della guerra

Il tuttora misterioso attentato dell’11 settembre 2001 ha offerto all’attuale leadership statunitense l’occasione per annunciare ufficialmente l’abbandono della strategia del contenimento dei conflitti, adottata nel corso della Guerra Fredda, e l’adozione della nuova dottrina della guerra «preventiva» permanente, elaborata sullo sfondo della teoria dello «scontro tra civiltà» e supportata dal rifiuto di riconoscere qualsiasi autorità giudiziaria transnazionale. Ieri l’Afghanistan, oggi l’Iraq (e indirettamente l’Unione Europea), domani forse l’Iran, la Siria o la Libia. Quindi, in prospettiva, l’India, la Russia, la Cina e sempre, per interposto Israele, il Medio Oriente. Non c’è dubbio che le ragioni ultime di questo rilancio dell’aggressività risiedono da un lato nelle modificazioni degli equilibri mondiali di potenza economica, politica e in prospettiva militare, dall’altro nella struttura materiale delle relazioni economiche tra gli Stati Uniti (in grado anch’essa di influenzare pesantemente l’impostazione delle relazioni geopolitiche). La pretesa di controllare il petrolio lungo tutta la cintura mediorientale ed euro-asiatica e l’esigenza di mantenere elevato il livello dei flussi di investimento estero in dollari impongono di per sé una incessante tensione verso l’egemonia militare nelle regioni strategiche. Ma un ruolo di grande importanza svolge in questo contesto anche la concreta configurazione degli interessi in campo e dei poteri impegnati a sostenerli. Senza con ciò sottovalutare le finalità strategiche della politica statunitense (il nesso tra la sua torsione aggressiva e il perseguimento di un’egemonia globale sul piano economico e politico), appare evidente la connessione tra la forte accelerazione impressa dall’amministrazione Bush alla macchina militare statunitense e la preponderante influenza esercitata dal complesso energetico-militare-industriale sui centri di potere competenti in materia di politica estera e «sicurezza nazionale». Una connessione tanto più stretta ed efficace in quanto – come si è visto – a decidere la guerra sono in molti casi le stesse persone che traggono enormi profitti da ogni nuova spedizione militare, da ogni impresa di occupazione e dalle stesse politiche di riarmo del nemico.
Sullo sfondo del nesso che lega gli interessi economici delle lobbies più potenti al nuovo corso della politica estera statunitense, l’adozione del «modello amico/nemico» si salda al problema della crisi della democrazia e ne diviene uno snodo essenziale. L’aggressività neo-imperialistica dell’amministrazione Bush trae un preciso connotato dalla schiacciante influenza delle oligarchie economiche insediatesi nella Casa Bianca. La macchina militare statunitense e, alle sue spalle, l’intera struttura del governo sono sempre più funzionalizzate agli interessi di ristretti potentati. Non è più in questione la tradizionale connessione tra politica (sistema dei partiti come luogo di mediazione degli interessi diffusi e di organizzazione del consenso) ed economia (sistema produttivo, gerarchicamente strutturato nel segno della prevalenza degli interessi del capitale), in virtù della quale lo Stato borghese opera per sua stessa natura come Stato di classe, privilegiando determinate componenti sociali e discriminandone altre. Come si notava all’inizio, le mediazioni tendono ad essere bruciate. Le relazioni cedono il passo alle identità: il magnate diviene politico in prima persona; il management della grande impresa si installa nei luoghi della politica – e non nelle rumorose aule parlamentari, sedi di defatiganti discussioni, ma nelle ovattate stanze del governo – provvedendo da sé alla cura dei propri interessi, senza più delegarla ad altri. La sfera istituzionale muta – disperdendo oggettività (e per conseguenza capacità inclusiva) – nella misura in cui fa corpo con le concrete (private) individualità dei potenti, dei quali tende a divenire, in senso proprio, patrimonio.

Ricapitoliamo. La politica tende oggi a mutuare dalla guerra la logica delle proprie relazioni (e di conseguenza tende con crescente frequenza a gestire tali relazioni per mezzo della guerra). Questa torsione bellica della politica – in parte dovuta alla dinamica propria della riproduzione capitalistica, per sua natura esposta a crisi cicliche di sovrapproduzione – risente in buona misura del processo di privatizzazione della relazione politica e della sfera istituzionale, per effetto del quale ad occupare posti di comando sono sempre più spesso personalità direttamente impegnate anche in attività imprenditoriali e speculative e/o legate a potenti lobbies economiche. La politica è business e la guerra è, tra le sue espressioni, quella in cui la connotazione affaristica si esprime al meglio: come la direzione di impresa, implica decisioni immediate, senza partecipazione né controllo dal basso; per di più consente l’uso coperto (segreto) delle risorse pubbliche e procura immensi profitti (perché costa molto e perché – se vittoriosa – apre la via al controllo di ingenti ricchezze). Ma se, costretta a servire fini privati, la politica si serve della guerra per remunerare gli interessi che la controllano, in questo abbraccio mortale la democrazia soffoca. Il trionfo politico di oligarchie finanziarie impegnate nell’economia bellica determina la regressione della relazione politica a cattiva demagogia. La comunicazione diventa spettacolo, l’immagine costruita sostituisce la concretezza delle cose, il discorso razionale è spazzato via dalla suggestione populistica, la costruzione di corpi collettivi consapevoli di sé cede il passo all’esaltazione plebiscitaria o all’atomismo apatico, suo opposto speculare e identico. L’opinione pubblica dilegua. Nel triangolo che si disegna nel nesso tra guerra, potenza economica e controllo del sistema mediatico la relazione politica regredisce a fatto privato e il potere torna ad essere – come le altre componenti del patrimonio – una risorsa personale dei nuovi feudatari.
Tale panorama sembra disegnato a immagine e somiglianza delle tendenze neoautoritarie in atto negli Stati Uniti. Per la nettezza con cui tutti questi processi vi si verificano, l’America del giovane Bush costituisce un paradigma del processo di crisi democratica in forza del quale lo Stato regredisce a res privata. Sarebbe tuttavia sbagliato ritenere che questo quadro ritragga una situazione unica al mondo. Gli Stati Uniti sono un modello, hanno dimostrato più volte e in più campi di anticipare i successivi processi di sviluppo di altri continenti, a cominciare dall’Europa. In questo caso si è visto come l’Italia oggi presenti non poche analogie con l’America di Bush. A differenza che nell’Inghilterra di Tony Blair, che ha mutuato i tratti più repressivi della legislazione «anti-terrorismo» statunitense22, nel nostro paese non sono stati istituiti tribunali speciali, il «capo» del governo non ha il potere di decidere della durata delle detenzioni in incommunicado e non può né nominare corti giudicanti né stabilire arbitrariamente la severità delle pene. Sono differenze rilevanti, che parlano di situazioni diverse e di diversi gradi di involuzione dei sistemi democratici. Ma queste differenze non vanno sopravvalutate. Tra l’Italia di Berlusconi e gli Stati Uniti di Bush sussistono molteplici analogie, che riguardano sia la soggettività dei due capi di governo, sia le ricadute sociali e istituzionali della loro azione di governo.
Forti l’uno del potere economico e mediatico costruito sulla scorta di oscure frequentazioni all’ombra di un potente padrino politico, l’altro del potere politico ed economico accumulato dal padre e trasfuso nella lobby di famiglia, Berlusconi e Bush incarnano poli di potenza privata immediatamente tradotta – complice un clima generale segnato dal deperimento della sfera pubblica e dal drammatico radicalizzarsi delle logiche di dominio – nel cuore della politica. Da tale costituzione particolaristica discende la connotazione “schmittiana” della pratica politica espressa dall’attuale «capo» del governo italiano, fonte di effetti non meno inquietanti e per certi versi persino più gravi di quelli prodotti dalle scelte dell’amministrazione Bush.
Sul piano sociale, una legislazione che ha di fatto cancellato il contratto nazionale di lavoro, smantellando lo Statuto dei lavoratori e delegittimando le forze sindacali (cui si cerca di impedire anche l’esercizio del diritto di sciopero), ha riconsegnato milioni di lavoratori – già colpiti dall’attacco al welfare e da un sistema fiscale di rara iniquità – alla condizione di paria. Il nuovo ordinamento della scuola dell’obbligo ha reintrodotto criteri di selezione di classe ai fini dello sviluppo delle carriere scolastiche e, sfruttando le improvvide aperture operate dal centrosinistra verso la «parità», ha fortemente discriminato la scuola pubblica – osteggiata perché causa di mobilità sociale e luogo di elaborazione di un’opinione pubblica autonoma e critica – drenando ingenti risorse verso gli istituti privati e verso il circuito confessionale. Aggravando la cattiva legge già esistente, la nuova normativa sull’immigrazione ha sancito il ripristino del razzismo di Stato, la produzione di un modello processuale senza garanzie (potenzialmente generalizzabile a danno di altre fasce deboli di popolazione) e l’istituzione di un sistema concentrazionario impenetrabile da parte della giurisdizione. Il disprezzo per quanti vivono ai margini della società ha trasformato un sistema carcerario già indecente in una «discarica», emblema di una logica della riproduzione che procede per discriminazioni e per lacerazioni del tessuto sociale. L’intolleranza per il dissenso sociale e politico ha indotto a un impiego delle forze dell’ordine in funzione repressiva nei confronti della piazza che non ha precedenti, per brutalità, nella recente storia repubblicana.
Se a tutto ciò si aggiungono, sul piano politico e istituzionale, la legittimazione di fatto della più massiccia concentrazione di potere economico, politico e mediatico che l’Europa del secondo dopoguerra abbia mai conosciuto; la sistematica invasione di campo da parte dell’esecutivo a danno degli altri poteri costituzionali, in particolare della magistratura (alla quale si progetta di conculcare anche i più elementari diritti costituzionali, dalla libertà di espressione del pensiero a quella di associazione); la forte spinta verso modifiche costituzionali tese a rafforzare enormemente il potere del premier eletto in forme plebiscitarie; e da ultimo – ma non certo per importanza – il ritorno della guerra nell’esperienza quotidiana del paese, in totale violazione del dettato costituzionale: se si tengono nel debito conto l’insieme di questi sviluppi e il processo di tacita abrogazione della Costituzione repubblicana che ne discende23, si comprende senza difficoltà come non vi siano ragioni per considerare il nostro paese immune dal pericolo di una grave regressione autoritaria che oggi incombe sulla maggiore potenza economica e militare dell’Occidente.

8. Per una periodizzazione dell’attuale quadro di crisi

Non ci rimane, prima di chiudere, che tentare un rapido riferimento al quadro storico generale nel quale si collocano le trasformazioni sinora passate in rassegna. Delineare tale contesto – pur in grandi linee e per sommi capi – appare indispensabile se si vuol cogliere appieno la portata di tali mutamenti ed evitare il rischio di limitarsi alla critica delle caratteristiche soggettive di qualche protagonista: caratteristiche che, pur non ininfluenti, costituiscono al più elementi propiziatori o concause, e non possono di per sé render conto dell’instaurarsi di processi degenerativi simili a quelli qui considerati.
In apertura si è fatto cenno al biennio 1989-91 come all’esordio “ufficiale” dell’attuale crisi della democrazia. In realtà, prima di segnare l’inizio di un nuova fase storica (marcata dalla fine del bipolarismo e dalla scomparsa dei vincoli interni ed esterni da esso posti), questa data periodizzante vede il compimento di una prima transizione, innescata dalla rivoluzione conservatrice thatcheriano-reaganiana che attraversa tutti gli anni Ottanta e approda alla «globalizzazione neoliberista» e ai suoi dettami: pareggio dei bilanci per mezzo di tagli alla spesa sociale; privatizzazioni; deregulation; precarizzazione del lavoro e delle posizioni sociali subalterne. Si capiscono così i caratteri dell’attuale ordine (o meglio, caos) mondiale che vede la luce appunto dopo il 1991 e che risulta dall’impasto tra neoliberismo, crisi di sovrapproduzione, migrazioni e schiavitù di massa, inedita polarizzazione delle ricchezze e ritorno della guerra nell’agenda delle politiche internazionali, non soltanto lungo le linee di demarcazione tra i grandi continenti geo-politici (l’Asia Orientale, il Medio Oriente) ma anche al loro interno (i Balcani, sin dalla primavera del ‘91 – al momento della proclamazione di indipendenza da parte della Croazia e della Slovenia – sostanzialmente sussunti nello spazio economico e politico europeo).
È questo lo scenario mondiale, caratterizzato dal tentativo di imporre unilateralmente la pax americana, nel quale nasce il populismo autoritario che oggi mette seriamente a repentaglio i sistemi democratici in gran parte dell’Occidente. Lo squilibrio di potenza generato dal tramonto del bipolarismo sottrae alle società occidentali un formidabile impulso verso la civilizzazione del capitalismo e contribuisce a drammatizzare oltremisura il problema del controllo delle risorse energetiche, mentre già si profila un’emergenza idrica di sconvolgente portata. La crisi economica, acuita dalle politiche neoliberiste imposte dagli organismi internazionali di «regolazione» diretti da Stati Uniti e Unione europea, colloca le grandi aree monetarie su una rotta di collisione. Imponendo il perseguimento del pareggio a mezzo di riduzioni della spesa e impedendo quindi l’uso sociale del debito, le strategie deflattive per il controllo dei bilanci pubblici ostacolano le politiche espansive, determinano l’espulsione di quote crescenti di società dai processi di riproduzione e provocano l’apertura di una drammatica forbice tra masse demografiche e corpi civili, tra popolazione e cittadinanza. La crisi dei sistemi di sicurezza sociale e il collasso dei tradizionali riferimenti sociali e ideologici generano ansie, spingono al radicamento neo-etnico, all’odio xenofobo e alla invocazione di personalità carismatiche. La crisi delle forme classiche della rappresentanza e il processo di personalizzazione e spettacolarizzazione della leadership da un lato determinano il distacco dalla politica di fasce crescenti di popolazione (non solo di aree marginali, ma anche di gruppi sociali abituati ad affidare alla politica le proprie speranze), dall’altro accrescono a dismisura i costi della politica stessa e incoraggiano la concentrazione dei poteri nelle mani di ristrette oligarchie. In questo quadro «politico-storico» si colloca la crisi della democrazia di cui discorriamo, quella privatizzazione delle istituzioni che favorisce la modificazione degli assetti istituzionali in senso autoritario e inquina la relazione politica, determinando la regressione della statualità e una sostanziale dissoluzione della sfera pubblica, dispersa tra gli estremi di un centro politico sottratto al controllo democratico e un corpo sociale atomizzato e deprivato di qualsiasi prerogativa di partecipazione alle funzioni di governo.
Se questo è vero, non è difficile cogliere la portata storica – davvero epocale – di questo insieme di trasformazioni. Lo scenario ricorda in modo preoccupante la svolta degli anni Venti-Trenta del secolo scorso, che avviò l’Europa liberale verso la più grave regressione politica e sociale della sua storia. Le analogie sono numerose: il ritorno in auge della guerra, l’enfasi sui problemi demografici (connessi alle migrazioni di massa e ai presunti «conflitti generazionali» in tema di lavoro e diritti sociali), la tendenza a etnicizzare i conflitti sociali e politici, il dilagare di orientamenti xenofobi e razzisti. Su questo sfondo, come allora, la crisi economica e la frattura sociale che essa alimenta portano con sé un sentimento di insicurezza che non coinvolge ormai più soltanto le componenti marginali, tradizionalmente esposte alla precarietà, ma anche le classi lavoratrici e, in misura crescente, gli stessi ceti medi, colpiti nei diritti acquisiti e posti dinanzi a prospettive inquietanti di povertà e di destabilizzazione politica. Tale sentimento rischia di spingere masse popolari malcontente verso l’invocazione di interventi autoritari che salvino un minimo di sicurezze economiche e identitarie, pur a prezzo di libertà democratiche. Da qui sorge la concreta possibilità che si verifichi – per riprendere la celebre espressione di Karl Polanyi – una seconda «grande trasformazione»:24 la possibilità, cioè, che un intervento autoritario, capace di insinuare nell’immaginario collettivo la convinzione che la distruzione dei sistemi costituzionali offra una promettente scorciatoia verso la risoluzione dei più assillanti problemi materiali e morali, incontri un consenso di massa. E se è vero, per un verso, che non è all’ordine del giorno né la minaccia del contagio rivoluzionario né un ritorno di fiamma della classica aggressività nazionalistica, è altrettanto evidente che esistono (in quanto vengono artificiosamente evocati) altri e non meno gravi pericoli – il rischio di invasioni da parte di «nuovi barbari», la minaccia del «terrorismo internazionale» – e che la proiezione imperialistica permane, in forme nuove, un connotato essenziale della geopolitica delle maggiori aree di potenza economica e militare del pianeta.

Che cosa si vuol dire con ciò, forse che il fascismo bussa nuovamente alle porte? Si è già osservato che, posta in questi termini, la domanda rischia di avviare riflessioni sterili. Certo la situazione è delicata e non contribuisce a rasserenarla una diffusa propensione a minimizzare gli elementi di rischio che non è soltanto di chi si ostina a ignorare la carica eversiva immanente nella violazione di norme e principi base della convivenza democratica da parte dei governi, ma anche di quanti la denunciano con forza ma si rifiutano di guardare al di là dei confini del proprio paese per verificare se l’anomalia che lo travaglia si manifesti o meno anche altrove. Sta qui – per parlare di casa nostra – il limite di un certo furore anti-berlusconiano. Che non ha, come taluno suole rimproveragli, il torto di esagerare i guasti già provocati e le minacce potenziali, bensì quello di ricondurre l’intero problema alla persona del presidente del Consiglio in carica – ai suoi trascorsi, alle sue propensioni, ai suoi intendimenti – rischiando così di identificare il sintomo per la malattia. Se le analisi qui prospettate colgono nel segno, è senz’altro giusto opporsi col massimo vigore a Berlusconi e al suo governo, ma è altrettanto necessario riconoscere in essi l’espressione di una tendenza critica assai più vasta – e per ciò tanto più minacciosa – che coinvolge gran parte del mondo occidentale e che rischia di compromettere per lungo tempo la tenuta democratica di alcuni grandi paesi.
Occorre allora prendere coscienza che quello in cui ci troviamo non è più il tempo delle lievi correzioni di rotta. Non si tratta di disputare il potere alla destra per poi confermare, con marginali mutamenti di accento, l’impianto delle sue politiche economiche e sociali. Tanto meno ha senso perseverare in quel disastroso rovesciamento del tradizionale ruolo politico-storico della destra e della sinistra che negli ultimi vent’anni ha consentito alla prima di praticare politiche di sperpero e di rapina, riservando alla seconda l’onere di risanare i bilanci pubblici a suon di tagli alla spesa sociale. O le forze democratiche e la sinistra avranno il coraggio di cambiare in profondità, affrontando con rigore, se non altro, la grande questione della giustizia distributiva, o si alimenteranno frustrazioni, delusioni, risentimenti. O si riprenderà il filo delle politiche redistributive, provvedendo ad ampliare l’area della cittadinanza e lo spettro degli interessi rappresentati (cioè agendo in controtendenza rispetto alle politiche praticate da quando la sinistra ha sposato il dogma secondo il quale la società si governa solo se si è conquistato il centro dello schieramento politico), o si accentuerà la già grave disaffezione delle masse popolari dalla politica, col rischio che la sfiducia che oggi ingrossa i ranghi dell’astensionismo si traduca domani nel risentimento e nella disponibilità a nuove avventure. Ove questo accadesse, persino un eventuale successo elettorale delle forze democratiche oggi all’opposizione potrebbe rivelarsi non solo effimero ma anche fatale, poiché il successivo ritorno al potere delle destre avrebbe carattere di lunga durata e conseguenze assai più catastrofiche di quelle sin qui sperimentate.

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