Download: d.l.144del2005.pdf
1. Il decreto legge n.144/2005 (c.d. decreto Pisanu), approvato dal Consiglio dei Ministri in data 22 luglio 2005 e convertito con modificazioni nella legge 31 luglio 2005, n.155, dopo soli tre giorni di discussione in Parlamento, si propone come obiettivo prioritario il contrasto del terrorismo internazionale. Le misure legislative adottate con urgenza, immediatamente dopo i tragici attentati di Londra e di Sharm el Sheikh, intendono colmare le lacune punitive dell’attuale normativa penale in riferimento alle attività criminali di organizzazioni terroristiche internazionali. Il ministro Pisanu ha infatti sottolineato nel suo discorso introduttivo dinanzi alle Camere che: «uno degli elementi indispensabili per rendere la risposta al terrorismo chiara, forte e vincente è, senza alcun dubbio, la capacità di adeguare i sistemi giuridici occidentali alle caratteristiche particolarmente insidiose e sfuggenti del terrorismo islamista»1). Essenziale, dunque, ai fini della comprensione e della valutazione delle modifiche normative apportate è il riferimento all’attuale contesto politico globale che, a partire dall’11 settembre 2001, si sta radicalmente e velocemente trasformando. 2. Dal punto di vista del contenuto il decreto è composto da 19 articoli che consistono essenzialmente in: a) estensione delle misure di lotta alla mafia al contrasto del terrorismo interno ed internazionale; b) rilascio di un permesso di soggiorno (o carta di soggiorno), in deroga alla normativa vigente, agli stranieri che collaborano con la giustizia, ma anche una procedura sommaria e frettolosa per le espulsioni di coloro che sono semplicemente sospettati di agevolare cellule terroristiche; c) prolungamento del fermo di polizia giudiziaria da 12 a 24 ore e ampliamento dei casi di arresto obbligatorio nella flagranza di delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico; d) introduzione del reato di “possesso e fabbricazione di documenti di identificazione falsi”, per il quale sono previste pene severe; e) introduzione di nuove procedure di identificazione tramite il prelievo dei capelli o della saliva, sulla base anche della sola autorizzazione “orale” del pubblico ministero; f) istituzione di nuove fattispecie delittuose che incriminano non solo le attività di addestramento, ma anche quelle di arruolamento di persone da avviare alla perpetrazione di azioni terroristiche; g) definizione normativa della condotta con finalità di terrorismo; h) aggravamento della disciplina delle misure di prevenzione, dove si ripristina l’arresto fuori flagranza per violazione agli obblighi della sorveglianza speciale; i) allargamento delle possibilità di intercettazione e di conservazione dei tracciati delle comunicazioni telefoniche e telematiche; l) introduzione di nuove restrittive misure amministrative al fine di controllare attività “sensibili” (esercizi di internet point e simili, attività di volo, attività inerenti agli esplosivi); m) riduzione degli impegni della polizia giudiziaria in attività sussidiarie al processo penale, in particolare in materia di notifica; n) impiego di servizi di vigilanza privata in luoghi sensibili quali porti, stazioni ferroviarie, metro e mezzi di trasporto pubblici. Appare evidente che non si tratta di «circoscritti adattamenti delle norme vigenti» – come ha provato a spiegare il governo in un comunicato pubblicato sul proprio sito web – ma di disposizioni che modificano in profondità molte norme poste a tutela dei diritti individuali. In primo luogo, va evidenziato l’allargamento delle ipotesi di espulsione degli stranieri e la cancellazione del loro diritto di difesa, attraverso la “semplificazione” delle procedure che non prevedono la sospensione dell’esecuzione del provvedimento di espulsione in caso di ricorso giurisdizionale e la sostanziale sterilizzazione dell’intervento della magistratura amministrativa2). Questa è infatti costretta a sospendere, fino a due anni, il procedimento nei casi in cui il governo decida di apporre il segreto sugli atti preliminari al decreto di espulsione. In questo modo la funzione del giudice diviene subalterna rispetto a quella svolta dall’amministrazione dell’Interno. Inoltre, l’inserimento di questa norma (art.3, comma 5, del decreto citato) – specie a seguito della sentenza del Tar del Lazio, Sez. I ter, n.15336/04, che ha annullato il decreto di espulsione emesso dal ministro dell’interno nei confronti del cittadino senegalese Mamour Fall (meglio noto come l’imam di Carmagnola), specificando che la semplice manifestazione del pensiero non può, in alcun modo, costituire pericolo per la sicurezza dello Stato – appare costituire un’ escamotage finalizzato ad aggirare gli eventuali ostacoli che lo svolgimento dell’attività giurisdizionale avrebbe potuto porre alle decisioni dell’esecutivo. Nei confronti degli stranieri sembra, oramai, applicarsi un diritto speciale3) che si ispira alle abrogate norme del T.U.L.P.S. del 1931. Essi si trovano, sempre più, alla mercè delle decisioni insindacabili del potere amministrativo, ossia di decisioni adottate in totale assenza di contraddittorio4). La conferma di questa ipotesi pare del resto discendere dalla natura delle espulsioni eseguite nei confronti di alcuni esponenti della comunità islamica che si erano limitati a svolgere un’attività di mero proselitismo. Attività che oggi viene considerata una seria minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza dello Stato, in quanto la nozione di «pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza dello Stato» si è, ormai, dilatata al punto da configurare un inedito speech crime, talmente amorfo ed onnicomprensivo, da inglobare qualunque pensiero o discorso che venga ritenuto dissonante da quello dominante. Il pensiero, considerato eversivo, e non più l’azione diviene oggetto dell’attività investigativa e repressiva delle autorità di polizia5). Una forte erosione subiscono anche i diritti civili e di privacy dei cittadini italiani. L’approccio del legislatore è da considerarsi insoddisfacente e criticabile, sia sul piano dell’efficiente perseguimento degli obiettivi, sia perché produce un notevolissimo arretramento rispetto alle conquiste del costituzionalismo moderno e, in generale, della civiltà giuridica. La “guerra al terrorismo internazionale” diviene fomite di un ulteriore attacco allo stato di diritto ed alle garanzie di libertà, senza, peraltro, offrire alcun sostanziale contributo alla tutela della sicurezza pubblica, intesa come pacifica convivenza tra cittadini, popoli e Stati. La prospettiva securitaria che informa il decreto, determina la lesione dei diritti inviolabili della persona umana, sulla base del convincimento, irrazionale ed inaccettabile, che le garanzie individuali, sostanziali e processuali, costituiscono un impedimento allo svolgimento delle attività investigative, un ostacolo all’accertamento della verità6). Le parole pronunciate dal Segretario di Stato britannico, Charles Clarke, lo scorso 7 settembre, dinanzi al Parlamento europeo, dove egli ha ufficialmente chiesto «la revisione della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo», chiariscono inequivocabilmente questo concetto: « Gli Stati dell’Unione europea dovrebbero poter accettare un’erosione di qualche libertà civile per proteggere i loro cittadini dal crimine organizzato e dal terrorismo» («European Union states may have to accept an erosion of some civil liberties if their citizens are to be protected from organized crime and terrorism»). Va evidenziato, inoltre, che la legge impernea i meccanismi repressivi su una categoria unitaria e, pertanto, generica, di criminalità organizzata. Questa tendenza, che ha caratterizzato le scelte politico-legislative in materia penale degli ultimi anni, si è, però, rivelata fallimentare. La meccanica estensione di istituti tipici della legislazione antimafia ad altri settori criminali elide l’ontologica differenza che connota i diversi fenomeni criminali e si rivela, pertanto, poco idonea a contrastare in modo efficace il terrorismo internazionale7). Oltre a ciò, la sovrapposizione di fattispecie normative dai confini indeterminati e l’uso, confuso ed indistinto, dei connessi strumenti giuridici provoca l’abnorme dilatazione della categoria dei “reati con finalità di terrorismo” e la conseguente inclusione, nella stessa, di fattispecie ascrivibili alla categoria degli illeciti comuni. Si assiste, inoltre, all’introduzione, lenta ma progressiva, dell’impresa privata nella gestione della sicurezza pubblica. L’art.18 del decreto in esame prevede, infatti, la possibilità di affidare i “servizi di sicurezza sussidiaria” (nell’ambito dei porti, delle stazioni ferroviarie e dei relativi mezzi di trasporto e depositi, delle stazioni delle ferrovie metropolitane e dei relativi mezzi di trasporto e depositi, nonché nell’ambito delle linee di trasporto urbano) a “guardie giurate dipendenti o ad istituti di vigilanza privata”. La norma non attribuisce, invero, alle imprese private di sicurezza compiti propri dell’autorità di pubblica sicurezza e degli organi di polizia, ma, nel contempo, non specifica la nozione di “servizi di sicurezza sussidiaria”. La questione della sicurezza pubblica rischia, pertanto, di trasformarsi in una grande opportunità di profitto per l’industria della sicurezza. Gli interessi economici delle imprese del settore potrebbero costituire un elemento determinante per l’accelerazione dei processi di privatizzazione del comparto della pubblica sicurezza, ivi compresa la gestione dell’ordine pubblico. Esempi significativi di questa possibile deriva possono trarsi dall’esperienza degli Stati Uniti e dell’ Inghilterra. In questi paesi la gestione della sicurezza, della guerra, dei servizi di vigilanza e dei sistemi penitenziari è in larga parte affidata alle imprese private. 3. La novità pregnante del decreto è contenuta nell’art.15, comma 1. Questa norma introduce, nel codice penale, la definizione giuridica della “condotta con finalità di terrorismo”. Essa stabilisce che «sono considerate con finalità di terrorismo le condotte che, per la loro natura o contesto, possono arrecare grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale e sono compiute allo scopo di intimidire la popolazione o costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale, nonche’ le altre condotte definite terroristiche o commesse con finalità di terrorismo da convenzioni o altre norme di diritto internazionale vincolanti per l’Italia». Il legislatore, già prima dell’emanazione del decreto n.144 del 2005, aveva tentato di elaborare la nozione di “reato di terrorismo internazionale”. L’art.270 bis c.p., novellato dal decreto legge 18 ottobre 2001, n.374, poi convertito nella legge 15 dicembre 2001, n.438, ha fornito una prima, seppur poco chiara, definizione8). Questa norma ha posto, infatti, una serie di problemi interpretativi di non facile soluzione, sia dal punto di vista della legittimità costituzionale, sia in relazione alla stessa possibilità di una efficace applicazione. L’atipica collocazione sistematica della norma incriminatrice, inserita nel capo I del titolo I del libro II del codice penale, dedicato ai “delitti contro la personalità dello Stato”, pone – come s’è detto – un serio dubbio di compatibilità non solo «con i principi costituzionali, ma anche con quelli che rappresentano l’assetto complessivo del sistema penale italiano», posto che essa rende punibili comportamenti che si risolvono «in una adesione ad organizzazioni che non intendono affatto aggredire l’ordine costituzionale della Repubblica italiana, né commettere atti terroristici contro le istituzioni del nostro paese»9). Occorre osservare, in primo luogo, che il nostro ordinamento non potrebbe tutelare, attraverso lo strumento del diritto penale, l’integrità politica, economica e sociale di un Paese straniero. Il principio di sovranità impedisce allo Stato un’indebita estensione dei compiti punitivi10). La stessa Corte di Cassazione, Sez. VI, 17 aprile 1996, con la sent. n.973, aveva, del resto, chiarito, in coerenza con il dettato costituzionale. che: «ai sensi dell’art.270 bis c.p. l’azione deve avere di mira in modo diretto ed immediato l’ordine democratico italiano, non essendo lecito introdurre forme mediate ed indirette di lesioni coincidenti con gli eventuali effetti, politici prima di tutto, determinate nel nostro ordinamento da azioni lesive di altri ordinamenti». Occorre, in secondo luogo, rilevare la dubbia legittimità costituzionale di una norma finalizzata a tutelare anche gli Stati che non possiedono i requisiti minimi di democraticità. Si è rilevato, a questo proposito, che il perseguimento mediante la fattispecie incriminatrice del terrorismo di atti di violenza contro eserciti invasori, o contro Stati oppressivi ed autoritari renderebbe, inopinatamente, perseguibili le forme di legittima resistenza popolare. Va evidenziata, infatti, «la necessità di distinguere attentamente fra i casi di terrorismo e gli altri casi nei quali il ricorso alla lotta armata può apparire giustificabile alla luce del diritto internazionale». Questo assume, «al riguardo, una posizione di neutralità e a volte un atteggiamento favorevole, data la necessità di realizzare obiettivi di carattere generale quali l’autodeterminazione dei popoli o l’eliminazione di regimi antidemocratici, oppressivi o razzisti»11). Il Gup di Milano, nell’ordinanza di scarcerazione di due cittadini stranieri, imputati sulla base delle disposizioni dell’art.270 bis c.p., aveva assunto una analoga impostazione. Il magistrato non aveva ritenuto legittimo sussumere, nella nozione giuridica di terrorismo, qualsiasi attività di guerriglia attuata in un contesto bellico. Egli aveva, infatti, chiarito che «la nozione di terrorismo, […] recepita dall’art.270 bis c.p., non può riguardare, in accordo con il testo dell’art.18, comma 2, della Convenzione O.N.U. sul Terrorismo del 1999, l’attività di gruppi armati o movimenti, diversi dalle forze armate, nella misura in cui, in contesti bellici, essi si attengano alle norme del diritto internazionale». L’assenza di una chiara norma interna, cui far riferimento ai fini dell’interpretazione della disposizione contenuta nell’art.270 bis c.p., ha indotto il magistrato ad utilizzare le norme recepite dalle convenzioni internazionali. Queste, pur con gravi imperfezioni e lacune, hanno tentato di fornire una definizione del reato di terrorismo. La cooperazione internazionale in materia di terrorismo, sviluppata, a partire dagli anni ’70, sotto la spinta delle forme nuove e sofisticate di terrorismo, «di per sé coinvolgenti, in ordine a singoli episodi terroristici, una pluralità di Stati»12), ha privilegiato un approccio di tipo settoriale. Si è preferito, cioè, approntare gli strumenti pattizi in relazione, alla prevenzione e la repressione, di “singole” manifestazioni terroristiche, piuttosto che elaborare un disegno normativo “unitario”13). L’approccio settoriale ha caratterizzato, infatti, l’impostazione della Convenzione dell’Aja del 16 dicembre 1970 per la repressione della cattura illecita di aeromobili, della Convenzione di Montreal del 23 settembre 1971 per la repressione di atti illeciti diretti contro la sicurezza dell’aviazione civile e della Convenzione di Roma del 10 marzo 1988 per la repressione degli atti contro la navigazione marittima. La Convenzione europea di Strasburgo, per la repressione del terrorismo, del 27 gennaio 1977, (ratificata in Italia nel 1986), pur essendosi caratterizzata per l’adozione di un approccio globale alla tematica, ha scelto tuttavia di non elaborare una nozione generale di terrorismo. Una definizione della condotta con finalità di terrorismo è stata elaborata, a livello europeo, solo con la decisione Quadro del Consiglio dell’UE, del 13 giugno 2002 (2002/475/GAI). Questa decisione si è ispirata alla Convenzione internazionale per la repressione dei finanziamenti al terrorismo, (New York, 9 dicembre 1999), ossia a quella stessa Convenzione a cui aveva fatto riferimento il Gup del Tribunale di Milano. Essa ha stabilito che deve essere considerato atto di terrorismo «ogni atto la cui finalità per natura o contesto, sia quella di intimidire una popolazione o di costringere un governo o una organizzazione internazionale a fare o ad omettere qualche atto…» (art.2, comma 1, lett.b). La decisione del Consiglio dell’UE ha stabilito, di conseguenza, che ciascuno Stato membro deve adottare «le misure necessarie per garantire che […]siano considerati reati terroristici» gli atti intenzionali commessi al fine «di intimidire gravemente la popolazione, o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un paese o un’organizzazione internazionale» (art.1, comma 1). La definizione di terrorismo, fornita dall’art.15, comma 1, del decreto legge n.144 del 2005 è, quindi, assai simile – ed in alcuni tratti identica – alle definizioni adottate dalla sopra menzionata Convenzione dell’ONU (1999) e dalla decisione del Consiglio dell’UE (2002). La nozione di terrorismo internazionale, fornita dal legislatore italiano, si presta tuttavia a molte critiche, sia perché non appare armonica con la disposizione contenuta nell’art.270 bis c.p., sia perché formulata in termini eccessivamente generici. Si tratta, invero, di una definizione dai contorni vaghi e indefiniti e, per questo, idonea ad includere inopinatamente ogni tipo di condotta connotata da violenza, ma anche ascrivibile alle manifestazioni di resistenza e di opposizione politica, all’attività terroristica. I confini tra il terrorismo e la protesta politica rischiano di diventare pericolosamente vaghi ed incerti, posto che, d’ora in poi, verrà considerata “condotta con finalità di terrorismo” qualsiasi condotta che persegue lo scopo di “costringere i pubblici poteri a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto” . 4. La diffusione del terrorismo internazionale prospetta, quindi, sul piano giuridico, rilevanti problemi che richiederebbero una approfondita riflessione sulla corretta conformazione della fattispecie incriminatrice e sull’adeguatezza degli strumenti giuridici da utilizzare. Questa riflessione dovrebbe, tuttavia, spingersi alla identificazione delle cause reali che ingenerano il fenomeno terroristico. Il contrasto al terrorismo internazionale rappresenta una indilazionabile priorità. Non si può tuttavia pensare che il rilevante problema sociale possa essere risolto solo mediante l’incremento della repressione penale e/o militare. Non è legittimo, peraltro, chiedere ai cittadini di rinunciare al patrimonio costituzionale dei diritti inviolabili di libertà, in nome di una guerra scatenata – paradossalmente – in nome della libertà14). Il nodo della questione non potrà essere definitivamente reciso se non verranno affrontate le cause sociali che lo determinano. Cause che la risoluzione Onu del 18 dicembre 1972, n.3034/XXVII, adottata su iniziativa dei Paesi poveri del mondo, ha individuato “dans la misère, les déceptions, les griefs et le désespoir », che spingono «certaines personnes à sacrifier des vies humaines, y compris la leur, pour tenter d’apporter des changements radicaux ».