1. Il duro scontro istituzionale tra il Presidente della Repubblica Ciampi e il Presidente del Consiglio on. Berlusconi sulla data delle elezioni ha, nei giorni passati, contribuito ad attirare l’attenzione del mondo politico e della grande stampa attorno all’annosa questione del potere di scioglimento delle Camere.
Definire, esattamente, il profilo giuridico dello scioglimento all’interno del vigente ordinamento costituzionale è sempre stato un’operazione alquanto ardua soprattutto in ragione della “naturale ambivalenza” dell’art. 88 della Costituzione che “nella sua laconicità non risolve direttamente i molti quesiti che si possono porre, alcuni di questi rimangono assolutamente senza risposta”[1].
Tuttavia le ragioni che indussero il Costituente ad adottare una formula così generica e di “duttilità estrema”[2] appaiono, in particolar modo oggi, evidenti ed affondano le loro radici nel c.d. “realismo costituente”. E cioè a dire nell’esigenza espressa in quella stessa sede dai principali partiti politici di irrigidire il meno possibile le disposizioni costituzionali concernenti la disciplina della forma di governo (lo stesso potrebbe, infatti, dirsi anche per il laconico art. 92) al fine di consentire a ciascuna di esse una coerente capacità di adeguamento alle inevitabili e mutevoli trasformazioni del quadro politico e istituzionale.
Nonostante i notevoli margini di laconicità sottesi a tale disposizione, l’opzione di fondo espressa dal Costituente al momento della redazione dell’art. 88 appare tuttavia netta ed inequivocabile: il potere di scioglimento è una prerogativa del Presidente della Repubblica. Un’opzione, questa, destinata ben presto a rivelarsi parte integrante delle istanze di razionalizzazione del sistema parlamentare, intrinsecamente finalizzate a “tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo”, conformemente a quanto previsto dall’ordine del giorno Perassi.
La costituzione repubblicana ha, infatti, su queste basi, determinato una sostanziale rottura degli schemi classici del costituzionalismo europeo, ponendosi in evidente contraddizione sia con la prevalente pratica costituzionale di un certo parlamentarismo ortodosso (imperniato sull’autoscioglimento). Sia con quella dei regimi monarchico‑parlamentari decadenti, che quasi sempre avevano finito con l’attribuire ai governi la prerogativa (solo formalmente regia) dello scioglimento.
All’interno del dibattito dottrinale sul potere di scioglimento così come venutosi sviluppando in questi decenni si son venute confrontando essenzialmente tre posizioni:
a) secondo un primo orientamento il potere di scioglimento seppur formalmente attribuito dalla carta costituzionale al Presidente della Repubblica deve ritenersi, per converso, facente parte (da un punto di vista sostanziale) delle competenze proprie del capo del governo[3]. I rischi, insiti in una simile configurazione, appaiono del tutto evidenti: il Presidente della Repubblica, assumendo in questo caso i connotati inequivoci di un vero e proprio “notaio della maggioranza”, si troverebbe, irrimediabilmente, costretto, ad eseguire la volontà politica dal Governo, assecondandone passivamente i propositi e le finalità.
b) A partire dalla metà degli anni cinquanta inizierà ad affermarsi la convinzione che il potere di scioglimento appartenga esclusivamente al Presidente della Repubblica[4]. È quanto si evincerebbe, secondo una certa dottrina, dallo “speciale trattamento” che il Costituente ha inteso riconoscere all’istituto in esame (non inserendolo nell’elenco delle competenze presidenziali previsto dall’art. 87 Cost), ma soprattutto dal tenore letterale dell’art. 88[5]. Tale disposizione – oltre a prevedere che il Capo dello Stato, prima di sciogliere le Camere, debba udire i presidenti di Camera e Senato – al secondo comma, vieta espressamente l’esercizio di questa prerogativa negli ultimi sei mesi del mandato presidenziale, “salvo che essi non coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura” (come recita, oggi, l’ultimo inciso della norma, dopo la revisione costituzionale intervenuta nel 1991). Invero, anche tali argomentazioni non sembrano essere del tutto esaustive. Sulla base del disposto normativo dell’art. 88 è possibile tutt’al più arrivare ad ammettere il carattere sostanziale dell’intervento presidenziale, ma non certamente, anche, l’esclusività di questo.
D’altronde, qualora si assumesse un analogo schema interpretativo anche con riferimento all’art. 92 Cost. e alle modalità di formazione del Governo, si rischierebbe, paradossalmente, di dovere considerare anche la nomina del governo un atto esclusivamente presidenziale. Anche in questo caso, infatti, tale prerogativa del Capo dello Stato non è stata enucleata nell’art. 87 Cost. Ed anche in questa circostanza l’audizione dei Presidenti dei due rami del Parlamento è ritenuta necessaria, seppure solo per convenzione[6].
Allo stesso modo non del tutto risolutivo appare, infine, il riferimento al “semestre bianco”, visto che il fondamento di tale istituto non può ritenersi, in alcun modo, riconducibile alla presunta “ossessione” del Costituente di impedire, ad ogni costo, un utilizzo “arbitrario” del potere di scioglimento (che il Capo dello Stato avrebbe potuto eventualmente porre in essere “nell’intento di facilitare la propria elezione”[7]). Altre sembrano essere, al contrario, le finalità sottese a tale disposizione. Prima fra tutte quella di scongiurare “la possibilità di una duplice carenza nella triade parlamento‑governo‑capo dello stato che si avrebbe proprio nello stesso periodo di tempo in cui sta per esaurirsi il mandato presidenziale”[8].
Anche in ragione di ciò la tesi in esame appare assai poco persuasiva e intrinsecamente marchiata dalle stesse incoerenze (seppure di contenuto opposto) della dottrina “filogovernativa”. Non è un caso che mentre quest’ultima dottrina tendeva ad emarginare definitivamente il Presidente della Repubblica dalle dinamiche politiche e istituzionali, sottraendogli ogni tipo di decisione in merito allo scioglimento, questa, all’opposto rischierebbe di esaltarne oltre misura il ruolo politico, fino a fare del Capo dello Stato il principale contraddittore dell’indirizzo politico di maggioranza.
c) Un terzo orientamento ritiene infine che lo scioglimento delle Camere rappresenti un atto sostanzialmente complesso, dovendo esso essere disposto sulla base di un preventivo accordo tra Capo dello Stato e Governo. Tale dottrina ritiene, in altre parole, che così come “il Presidente non potrebbe di sua esclusiva iniziativa, rompere il rapporto Parlamento‑Governo, senza provocare delle gravi ripercussioni politiche (rifiuto della controfirma da parte del Governo)”, allo stesso modo “il Governo non potrebbe decidere da solo sull’opportunità ed il momento dello scioglimento senza mascherare un’effettiva auto‑dissoluzione, cui dovrebbe opporsi il Capo dello Stato quale tutore dell’equilibrio politico”[9]. Ricorrendo all’interpretazione duumvirale si è, quindi, in definitiva, voluto, da una parte, evitare un asservimento politico dello scioglimento agli interessi del Governo[10], dall’altra, impedire che tale decisione potesse essere, in qualche modo, adottata attraverso un “un atto arbitrario del Capo dello Stato”[11].
Ma anche la teoria del potere di scioglimento come atto complesso si presta a mutevoli interpretazioni e tende fatalmente a risolversi nell’ammissione della (tendenziale) prevalenza di uno dei due soggetti del rapporto.
Non è un caso che in questi anni tale interpretazione sia stata autorevolmente suffragata sia dai sostenitori della suprema preminenza del Governo, dal momento che sarebbe la stessa natura dell’atto complesso a porre “quest’ultimo al centro del processo decisionale, poiché non vi sarebbe, a ben vedere alcuna simmetria nei ruoli dei due organi interessati. All’iniziativa del Governo corrisponderebbe infatti un mero controllo del Presidente, al quale spetterebbe in realtà soltanto di fare ostacolo ad arbitrarie decisioni del ministero”[12]. Sia da quella dottrina che, pur ammettendo che lo scioglimento debba necessariamente configurarsi come “atto complesso a partecipazione diseguale” non esita tuttavia a rimarcare la netta “prevalenza decisionale del Presidente della Repubblica rispetto al contributo del governo, che sarebbe di sola attestazione della costituzionalità dell’atto”[13].
2. Ciò non vuol dire, tuttavia, che l’atto di scioglimento presenti una connotazione esclusivamente presidenziale. Difatti seppure la titolarità del potere di scioglimento non può che essere riconosciuta al Capo dello Stato, “l’esercizio del potere presuppone un dialogo tra Presidente e Governo”[14]. Una diversa soluzione deve, al contrario, ritenersi politicamente inopportuna e giuridicamente impraticabile. E questo perchè, seppure il dettato costituzionale, tende costantemente ad esaltare il ruolo decisivo della volontà presidenziale (limitandosi unicamente a prevedere il parere obbligatorio, ma non vincolante dei Presidenti delle due Camere), è però pur vero che la perdurante necessità della controfirma (ex art. 89 cost.), non consentirebbe di ritenere determinante in nessun caso l’autonoma decisione del Capo dello Stato. Ed è proprio a partire dal combinato disposto degli artt. 88 e 89 cost., che un consolidato orientamento dottrinale, ha ritenuto opportuno evidenziare come nell’atto di scioglimento, “la partecipazione del Presidente della Repubblica e quella del governo appaiono due realtà suscettibili di diversa accentuazione, ma egualmente ineliminabili”[15].
Adattando ulteriormente questa chiave di lettura (e confortati dalla più recente esperienza costituzionale), si è portati, di conseguenza, a ritenere che l’avvio del procedimento di scioglimento[16], possa a seconda delle circostanze spostarsi dal Capo dello Stato all’esecutivo (e viceversa). Cosicché lo stesso atto di scioglimento potrebbe a sua volta coerentemente configurarsi, in alcuni casi, come atto di iniziativa presidenziale, in altri di iniziativa governativa.
È da qui che bisogna partire per comprendere appieno le controverse implicazioni che l’esercizio di tale prerogativa presenta. Implicazioni in gran parte connesse alla capacità di rendimento di tale istituto e al discrimine ad esso sotteso tra le cosiddette ipotesi di scioglimento funzionale (o “di ordinaria amministrazione” come era solito definirle Carlo Esposito[17]) e quelle, ben più rare, di scioglimento straordinario delle Camere.
Nel primo caso il decreto presidenziale viene generalmente adottato su iniziativa del Presidente del Consiglio che, rassegnate le dimissioni, “sollecita” il Capo dello Stato a procedere immediatamente allo scioglimento delle Camere. Tuttavia nemmeno in questo caso l’iniziativa del Presidente del Consiglio dimissionario può ritenersi determinante ai fini dello scioglimento. Affinché si possa procedere a nuove elezioni il Capo dello Stato deve preliminarmente verificare la sussistenza di un ulteriore presupposto: l’impossibilità di dar vita ad una nuova maggioranza di governo. Solo qualora ogni tentativo in questa direzione si rivelasse vano, il Presidente della Repubblica avrebbe il dovere costituzionale di recepire le istanze provenienti dal capo del governo. La sua resistenza a sciogliere sarebbe, di conseguenza, destinata ad assumere una valenza recessiva, dal momento che egli, in questi casi, non può far altro che “rassegnarsi a firmare il decreto di scioglimento, a meno che non voglia irresponsabilmente creare una situazione di conflitto o di confusione ai vertici dell’organizzazione costituzionale”[18].
Lo scioglimento per ragioni eccezionali non è invece riconducibile ad un “deficit” di funzionamento. Esso cioè non dipende, in alcun modo, dal venir meno del vincolo fiduciario fra maggioranza parlamentare e governo. Da ciò ne discende che, a differenza della precedente ipotesi, ad assumere, in questo caso, una posizione tendenzialmente recessiva è il Presidente del Consiglio che a fronte della straordinarietà della situazione e delle neutrali valutazioni espresse dal Capo dello Stato circa la necessarietà di uno scioglimento anticipato della Camere, non ha altra soluzione a disposizione che aderire prontamente all’iniziativa presidenziale, attestando, per mezzo della controfirma, la provenienza dell’atto e assumendosi, in quella stessa sede, le responsabilità proprie di un Ministero chiamato nell’immediato ad operare in regime di scioglimento.
3. In questo ambito si colloca, in particolare, lo scioglimento delle Camere disposto nel gennaio 1994 e dettagliatamente motivato dal Presidente Scalfaro in una missiva inviata ai Presidenti dei due rami del Parlamento[19]. Ma, per molti versi, all’interno di tale fattispecie parrebbe, anche, rientrare lo scioglimento delle Camere che dovrebbe essere decretato il prossimo 11 febbraio (stando almeno a quanto riferito, nei giorni passati, dalla stampa italiana a proposito dei contenuti dell’accordo siglato, dopo un lungo ed estenuante braccio di ferro, dai due Presidenti)[20].
Sebbene la scadenza naturale della legislatura fosse oramai prossima, è tuttavia evidente che anche in questo caso si è di fronte ad uno scioglimento anticipato delle Camere. Uno scioglimento determinato cioè – come si è già detto – non dal profilarsi di un incalzante deficit funzionale nei rapporti tra Parlamento e Governo (visto che non ci troviamo di fronte ad un esecutivo dimissionario, bensì ad un ministero nel pieno esercizio delle sue funzioni “fedelmente” sostenuto dalla maggioranza parlamentare), ma piuttosto da cause straordinarie. In particolare due: a) lo scioglimento anticipato ha, in questo caso, quale preminente obiettivo quello di evitare lo svolgimento di una consultazione elettorale tra luglio ed agosto. Le norme vigenti prevedono, infatti, che le elezioni delle nuove Camere debbano tenersi non prima di quarantacinque ed “entro settanta giorni dalla fine delle precedenti” (art. 61 Cost.). E cioè vorrebbe dire in piena estate, visto che la scadenza naturale della legislatura si avrebbe il 29 maggio 2006; b) il 18 maggio 2006 il Presidente della Repubblica esaurirà il proprio mandato. Lo svolgimento dell’appuntamento elettorale, con un significativo anticipo consentirebbe di conseguenza al Presidente Ciampi di poter operare nella pienezza dei proprie funzioni anche nella delicata fase di svolgimento delle elezioni politiche e alle Camere neoelette di essere immediatamente convocate per eleggere il suo successore.
In ragione di ciò appare del tutto evidente come sia stata proprio tale caotica scansione temporale degli appuntamenti politici e istituzionali, ad aver sollecitato, nei mesi passati, il Capo dello Stato ad intervenire prontamente (e con l’avallo iniziale di tutte le componenti partitiche e di tutti i soggetti istituzionali coinvolti) al fine di assicurare l’unità e il buon andamento delle dinamiche politiche e costituzionali. Solo il Capo dello Stato avrebbe, infatti, potuto, metter mano a tali “ingorghi istituzionali”, intervenendo energicamente nelle vesti di supremo garante del buon funzionamento del sistema politico e istituzionale. Non è un caso che “ogni qual volta l’ordinamento ha bisogno di una scelta indipendente si ricorre di nuovo al Presidente, la cui intera figura è costruita per l’imparzialità”[21].
Per converso le ragioni addotte dal Presidente del Consiglio per imporre (ed ottenere) uno slittamento dello scioglimento non paiono in alcun modo persuasive. E non lo è in particolare la pretesa di consentire alle Camere di approvare in tal modo, prima del loro scioglimento, “importanti disposizioni di legge” (il riferimento è alla legge Pecorella) volute dal Governo e “inaspettatamente” rinviate dal Capo dello Stato. Un espediente, questo, del tutto infondato sul piano giuridico (dal momento che tali disposizioni avrebbero potuto essere riesaminate anche a Camere sciolte) e soprattutto pretestuoso, perché finalizzato a occultare il pressante tentativo del Presidente del Consiglio di ritardare il più possibile l’applicazione delle “illiberali” disposizioni contenute nella legge sulla par condicio.
4. Al termine di questo breve excursus sul potere di scioglimento una sensazione tende tuttavia ad affiorare con forza: se, in queste settimane, il tentativo di sfondamento e di manipolazione delle fondamentali regole di svolgimento delle competizioni elettorali non è andato (del tutto) in porto è perché la “controriforma” voluta dal Governo Berlusconi (che affida integralmente il potere di scioglimento al premier) non è ancora – e speriamo che mai lo sarà – entrata in vigore.
In spite of everything è ancora oggi vigente il “vecchio” art. 88 della Costituzione che attribuisce la preminente decisione sullo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica. E tutto ciò al fine esclusivo (avvertito con straordinaria lungimiranza dal Costituente) di disintossicare – il più possibile – tale istituto da ogni strumentalizzazione di parte, “precludendone lo slittamento verso una deriva che avrebbe potuto funzionalizzarlo alla lotta del governo e della sua maggioranza contro l’opposizione”[22].
Claudio De Fiores
——————————————————————————–
[1] G. GUARINO, Lo scioglimento del Parlamento nel progetto per la nuova costituzione, in Rass. dir. pubbl., 1947, 155.
[2] L. CARLASSARE, Il Presidente della Repubblica, in Commentario della Costituzione (artt. 88‑91), a cura di G. Branca, II, Bologna‑Roma, 1983, 9.
[3] In questo senso, fra gli altri, A. AMORTH, La costituzione italiana, Milano, 1948, 151; S. GALEOTTI, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, in Id., Il Presidente della Repubblica garante della Costituzione, Milano, 1992, 38.
[4] A sostegno della tesi “sostantiva” cfr M.L. MAZZONI HONORATI, Aspetti e prassi costituzionale dello scioglimento delle Camere nell’ ordinamento repubblicano italiano, in Riv. trim dir. pubbl, 1978, 1332; G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica italiana, in Riv. dir. pubbl, 1951, 949; F. BOZZINI, Contributo alla interpretazione di talune funzioni del Presidente della Repubblica, in AA.VV., Studi sulla Costituzione, III, Milano, 1958, 197; E. CHELI, Art. 89, in Commentario della Costituzione, Bologna, 1984, 133; F. PINTO, Scioglimento anticipato delle Camere e i poteri del Presidente della Repubblica, in Pol dir., 1980, 231.
[5] Cfr, fra gli altri, M.L. MAZZONI HONORATI, Aspetti e prassi costituzionale dello sciglimento delle Camere nell’ ordinamento repubblicano italiano, cit., 1326 ss.; F. PINTO, Scioglimento anticipato delle Camere e i poteri del Presidente della Repubblica, cit., 232.
[6] Sul punto M. L. MAZZONI HONORATI, Aspetti e prassi costituzionale dello scioglimento delle Camere nell’ ordinamento repubblicano italiano, cit., 1326.
[7] P. BISCARETTI di RUFFIA, Diritto costituzionale. Istituzioni di diritto pubblico, Napoli, 1989, 498.
[8] A. REPOSO, Semestre bianco e scioglimento delle Camere, in Diritto e società, 1979, 814.
[9] T. MARTINES, Contributo ad una teoria delle forze politiche, Milano, 1957, 262. A sostegno della tesi dell’ “atto complesso”, fra gli altri, C. ESPOSITO, voce Controfirma ministeriale, in Enc. dir., IX, Milano, 1962, 296; L. ELIA, La continuità nel funzionamento degli organi costituzionali, Milano, 1958, 261; A.M. SANDULLI, Il Presidente della Repubblica e la funzione amministrativa, in Riv. amm., 1950, 156.
[10] Cfr C. ESPOSITO, voce Controfirma ministeriale, cit., 296.
[11] V. SICA, La controfirma, Napoli, 1953, 137.
[12] P. COSTANZO, Lo scioglimento delle Assemblee parlamentari, Milano, 1988, 148.
[13] G. FERRARA, Gli atti costituzionali, Torino, 2000, 203-204.
[14] M. L. MAZZONI HONORATI, Aspetti giuridici e prassi costituzionale dello scioglimento delle Camere nell’ ordinamento repubblicano italiano, cit., 1336
[15] L. CARLASSARE, Il Presidente della Repubblica, cit., 11. Dello stesso parere, A. M. SANDULLI, Il Presidente della Repubblica e la funzione amministrativa, cit., 156; L. ELIA, La continuità nel funzionamento degli organi degli organi costituzionali, Milano, 1958, 197.
[16] Sullo scioglimento come “atto procedimento” rinvio alle considerazioni di M. MIDIRI, La controfirma presidenziale nel sistema dei rapporti tra Presidente della Repubblica e Governo, Padova, 1988, 85 ss.
[17] C. ESPOSITO, Capo dello Stato, in Enc. dir., Milano, 1960, 240.
[18] A. BALDASSARRE ‑ C. MEZZANOTTE, Gli uomini del Quirinale. Da De Nicola a Pertini, Roma-Bari, 1985, 252.
[19] Sul punto mi sia consentito rinviare a C. DE FIORES, La travagliata fine dell’XI legislatura, in Giur. cost., 1994, 1479 ss.
[20] Sul punto rinvio, fra le tante, alla cronaca di Giorgio Battistini, E il Quirinale disse al Cavaliere: “Sulla data un impegno formale”, in La Repubblica del 25 gennaio 2006.
[21] G. GUARINO, Il Presidente della Repubblica, cit., 963-964.
[22] G. FERRARA, Gli atti costituzionali, cit., 204.