Sessant’anni fa non godeva buona fama. Forse posso concedermi un aneddoto autobiografico. Ho 19 anni, iscritto al secondo della Facoltà torinese: luogo serio; imparo comme il faut varie cose; questa coda dello scibile penalistico viene al quarto anno; da 10 costituisce materia autonoma nella ratio studiorum (prima era un capitolo trascurabile dei «Criminalia», enucleati dallo «ius civile» anno Domini 1509, quando Bologna chiama Ippolito Marsili, vecchio praticone, «ad lecturam quotidianam criminalium»). Il professore, chiaro penalista, la ignora. Quartultimo dei mie esami: vi spendo quattro o cinque giorni; 30 e lode; la cosa peggiore è che li meriti avendo racimolato qualche mezza idea nel deserto intellettuale. Vediamo come mai capitassero cose simili, risalendo al capostipite: «Tractatus de maleficiis» (1286-87, ricomposto 12 anni dopo); l’ha scritto Alberto Gandino, «magnus practicus», giudice itinerante, indi capo d’una famiglia podestarile (i Comuni appaltano la giustizia penale a dei forestieri); è la bibbia del penalista, centone d’una strepitosa memoria libresca e audiovisiva (Accursio figura 167 volte: poi Dino del Mugello, Guido da Suzara, Odofredo, Azzone, e via seguitando: «memini audivisse»; «recordor quod …»). Tiene banco la procedura. Il diritto penale affiora appena. Ma hanno sorti diverse: la materia minore cresce, arricchita da statuti, commenti, consilia; l’altra subisce una stasi lunga quanto l’epoca inquisitoria, 5 secoli. L’atrofia dipende dal modus procedendi: i tropismi invisibili dell’affare inquisitorio non sono calcolabili; l’arcano ammazza la procedura; le mort saisit le vif; non vale la pena d’occuparsene, mentre i giudizi civili stimolano una ricca teoria. L’eclissi del contraddittorio lascia segni profondi, infatti la materia rimane sterile anche nell’epoca postinquisitoria: vi dicono poco due forbiti penalisti quali Carmignani e Carrara; Nicola Nicolini, napoletano, compone un assai notevole trattato-commentario ma lavora su eleganze umanistiche assaporabili da pochi. Non esiste una procedura penale, constatano Carrara, Stoppato, Lucchini, e séguita a non esistere nel manuale che V. Manzini pubblica cum strepitu, Torino 1912. Subalterna al diritto penale, forma un’appendice tranquillamente ignorabile: i penalisti se ne disinteressano; poco e male insegnata, non trova chi la studi; né sotto l’aspetto vile attira cultori seri. Infine diventa insegnamento autonomo (r.d. 30 settembre 1938 n. 652) ma i residui della lunga catalessi pesano: ci vuol tempo a smaltirli; ancora adesso il discorso medio giurisprudenziale e forense qui appare meno sicuro che nelle materie nobili.