1.- Dopo la presentazione dell’ultimo Disegno di legge di revisione della Costituzione, proposto dal Governo, si sono levate grida di allarme non solo da parte politica, ma anche da gran parte della dottrina giuridica. Appare diffusa la sensazione che le modifiche annunciate, ove fossero approvate dal Parlamento, finirebbero per sfigurare il sistema costituzionale. Questo già di per sé pone un problema di grande rilievo. Da sempre, infatti, la dottrina costituzionalistica si interroga sui limiti delle revisioni costituzionali. Ed oggi ci si chiede se può considerarsi legittimo un disegno che tende non solo alla revisione del testo costituzionale, ma ad una sua profonda alterazione. Come la Corte costituzionale ha ricordato in tempi non sospetti, i “principi supremi” dell’ordinamento non possono venire modificati neppure utilizzando la procedura stabilita per la revisione della Costituzione.
Si tratta allora di capire anzitutto se il disegno di legge di revisione costituzionale che il Senato si accinge a prendere in esame infrange alcuni di questi principi. Gianni Ferrara e Lorenza Carlassarre, hanno risposto positivamente al quesito con chiara e motivata argomentazione1).
C’è poi un secondo problema, su cui Alessandro Pace ha da tempo, insistentemente, richiamato l’attenzione distratta dell’opinione pubblica e della comunità scientifica2). E’ possibile – ci si chiede – con un’unica legge di revisione modificare parti diverse della Costituzione, costringendo il Parlamento, ma poi soprattutto il corpo elettorale (cui spetta il giudizio definitivo sulla riforma costituzionale nel caso – non certo, ma probabile – in cui sia richiesto un referendum ai sensi dell’art. 138 Cost.) ad esprimersi su materie eterogenee? Il problema si pone – anche sulla scorta di una risalente giurisprudenza costituzionale in materia di referendum abrogativi di leggi ordinarie – perché si ritiene che la volontà popolare rischierebbe di essere solo retoricamente chiamata in causa, venendo messo in realtà nell’impossibilità di dare un giudizio distinto sulle singole parti. L’essere costretti a dire sì o no ad un pacchetto di riforme (alcune magari condivise, altre no), senza potere invece distinguere tra ciò che piace e ciò che non si vuole, sarà pure aderente ad una visione approssimata di democrazia populista, ma non appare invece trovare cittadinanza nella nostra più evoluta democrazia costituzionale.
2.- Ove fossero accolte le due obbiezioni appena esposte è chiaro che l’intero disegno di legge costituzionale del Governo dovrebbe essere completamente riscritto alla luce delle due seguenti indicazioni di metodo (ma che sono anche di merito): a) non cercare di modificare i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale vigente, evitando dunque molte forzature e riducendo le pretese di “eversione costituzionale”; b) presentare non uno ma diversi disegni di legge a seconda delle materie o degli organi costituzionali che si vogliono modificare. Non credo – ahimè – che questo avverrà. Prevedo invece due possibili scenari.
Il primo è quello auspicabile per chi è – come chi scrive – fortemente preoccupato dalla possibile introduzione nel nostro ordinamento di gran parte delle ipotesi proposte. Se dovesse proseguire il logoramento dell’attuale maggioranza, i contrasti interni alle forze politiche che attualmente sostengono Berlusconi renderanno improbabile il passaggio all’esame delle proposte di revisione. La discussione sulla riforma costituzionale, in questo caso, finirà nel nulla, non tanto per “merito” degli argomenti proposti dagli avversari della riforma ovvero grazie alla forza delle opposizioni, quanto per lo sfarinamento della maggioranza e l’incapacità di questa di realizzare un progetto di così ampia (e sciagurata) importanza. Se quest’ipotesi dovesse realizzarsi non ci sarebbe che da rallegrarsi dello scampato pericolo.
Ma c’è un secondo scenario possibile. Un po’ per forza d’inerzia, un po’ per restituire dignità “strategica” all’attuale maggioranza politica, il Parlamento potrebbe iniziare la discussione sul disegno di legge costituzionale e, magari senza tanto clamore, riuscire a superare tutte le tappe fino a tagliare il traguardo, finendo così per alterare il sistema costituzionale vigente. Questo infausto esito non può essere sottovalutato, e potrebbe essere favorito dalla assenza di dibattito o dalla scarsa consapevolezza dei danni che le diverse innovazioni riuscirebbero a produrre. E’ questa la ragione che ci impedisce di disinteressarci di un progetto di cui avremmo fatto a meno volentieri di discutere.
3.- Un inedito “Senato federale della Repubblica”, una nuova composizione della Camera dei Deputati, rilevanti modifiche al procedimento di formazione delle leggi, significative innovazioni alle procedure previste e all’organizzazione dei lavori parlamentari, il cambiamento del ruolo costituzionale del Presidente della Repubblica, l’alterazione dei poteri e delle funzioni esercitate dal Capo dello Stato, la concentrazione di poteri nelle mani del Primo Ministro (non più solo Presidente del Consiglio dei Ministri), la modifica della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, l’indicazione di uno status costituzionale per la Capitale, l’estensione della potestà legislativa delle Regioni, l’introduzione di giudici costituzionali “regionali” e una conseguente variazione dei criteri di composizione dell’organo di giustizia costituzionale, la semplificazione delle procedure necessarie per le future revisioni costituzionali. Questo è solo un elenco semplificato dei diversi settori su cui il disegno di legge vorrebbe intervenire, prospettando la modifica di 35 articoli della seconda parte della Costituzione. Troppo lungo sarebbe esaminarli separatamente, si può però almeno evidenziare alcuni aspetti.
4.- Iniziamo dal “Senato federale della Repubblica”, che di federale non ha che il nome. Non è dato riscontrare, infatti, nelle disposizioni contenute nell’articolato governativo, alcun collegamento istituzionale tra i Senatori “federali” e le realtà istituzionali territoriali. Né saranno certo le generiche indicazioni “regionaliste” a garantire rappresentatività istituzionale alle Regioni. Che l’elezione debba avvenire “a base regionale” è scritto anche nell’attuale art. 57 Cost., e si è sempre denunciata l’irrilevanza di questa indicazione. L’affermazione poi che deve essere garantita “la rappresentanza territoriale da parte dei senatori” non solo risulta indeterminata, ma viene anche clamorosamente smentita da una delle norme più ridicolmente perverse dell’intero progetto di revisione costituzionale: quella che stabilisce i requisiti per l’eleggibilità a senatore. Ridicola perché limitando l’elettorato passivo ad alcuni soggetti, si pone in palese contrasto con il principio supremo dell’eguaglianza dei cittadini e la conseguente evidente impossibilità di limitare del tutto irragionevolmente i loro diritti politici, tra cui espressamente quello di essere eletti alle cariche politiche. Se non si è perso del tutto il senso del ridicolo (e della storia), non credo si possa seriamente sostenere una limitazione del diritto di voto (di essere votati) per ragioni che appaiono legate ad una “perversione”. Perversione che risulta chiara leggendo a quali soggetti si pensa di limitare il “privilegio” dell’elettorato passivo: a coloro che “hanno ricoperto o ricoprono cariche pubbliche elettive in enti territoriali locali o regionali, all’interno della Regione, o sono stati eletti senatori o deputati nella Regione”. Dunque al ceto politico già “in carriera”, con l’esclusione invece della sempre enfatizzata società civile. Invero, al di là dell’improbabile possibilità di successo di una norma siffatta, appare preoccupante constatare l’idea di democrazia sottesa a questa previsione. Essa esprime una visione della democrazia chiusa entro l’ambito proprio del ceto politico, dove l’accesso agli organi politici (al Senato, in questo caso), non è tanto la conseguenza di un’investitura popolare, conseguenza cioè di una capacità di rappresentanza politica di interessi, classi o ceti, bensì scelta da compiere per la distribuzione dei ruoli tra le oligarchie politiche. Si potrebbe sospettare che qualcuno voglia ripercorrere l’insegnamento aristotelico sulle forme di Stato: passando da quella democratica a quella oligarchica, riservandosi di pervenire infine alla terza tipica forma di Stato, quella monarchica.
Quanto rilevato a me pare sufficiente per giungere ad una prima conclusione. Personalmente sono convinto che dopo la modifica del titolo V, voluta nella passata legislatura, che ha determinato una situazione di grande instabilità nei rapporti tra Stato e Regioni, sarebbe auspicabile l’introduzione nel nostro ordinamento di una “Camera delle regioni”, che dovrebbe sostituire l’attuale Senato della Repubblica, dando una rappresentanza istituzionale “forte e visibile” alle autonomie territoriali. Sono altresì convinto che il “Senato federale della Repubblica” disegnato dal progetto del Governo non ha nulla a che fare con questa delicata e reale problematica, ma renderebbe solo ancor più confusa la forma di Stato italiana3).
5.- Anche la parte del disegno di legge costituzionale relativa al Governo ed al rafforzamento dei poteri del Premier induce ad alcune considerazioni in ordine alla cultura costituzionale dei proponenti. Per sintetizzare può riprendersi l’efficace definizione data da Leopoldo Elia a questa parte del progetto: si vuole introdurre un “premierato assoluto”4), non più solo cioè il rafforzamento dei poteri del Primo Ministro, come da tempo quasi tutte le forze politiche auspicano e come un trend ormai più che decennale sollecita, ma, questa “strategia” tesa a rendere centrale la figura del Capo del Governo si accompagna ora ad una perdita della cultura dei contrappesi. E’ – in questa sede – sufficiente un’esemplificazione per dimostrare quanto denunciato. Com’è ben noto, una delle misure di maggior peso previste dal progetto è quella che affida alla “esclusiva responsabilità” del Primo Ministro il potere di scioglimento della Camera dei Deputati. Senza dilungarci sulle diverse conseguenze che ciò determinerebbe sugli equilibri dei poteri complessivi (sull’insieme della forma di governo), deformandone l’attuale configurazione, basta qui constatare che in tal modo non tanto si rafforza il Governo (o meglio il Premier), quanto si elimina il potere di controllo del Presidente della Repubblica sui rapporti Governo-Parlamento (che nel caso di crisi irresolubile tra i due organi non potrebbe più, com’è attualmente, decidere lo scioglimento delle Camere) e si condiziona la sopravvivenza della Camera alla volontà del Primo Ministro (che, secondo l’ipotesi prospettata, potrebbe assumersi la responsabilità di sciogliere l’organo della rappresentanza popolare), con quali effetti sull’autonomia dell’Assemblea legislativa e sul complessivo sistema democratico è facile immaginare. E’ questo un esito “naturale” di una lunga stagione che ha visto il nostro ordinamento repubblicano passare da un’auspicata centralità del Parlamento ad un’affermata centralità dell’esecutivo? Non credo, ma certo a questo punto non si può più far finta di non vedere la crisi della forma di governo e dei diversi organi costituzionali. Chi non desidera un “premierato assoluto” dovrà pur interrogarsi sulla crisi del Parlamento e sulle politiche istituzionali che rischiano di portare il Governo (e in esso il Primo Ministro) fuori da ogni controllo.
6.- Nel progetto di revisione costituzionale, ce n’è anche per il Presidente della Repubblica. S’è appena detto, intanto gli si sottrae uno dei due poteri tradizionalmente considerati più rilevanti: il potere di scioglimento. Per l’altro, quello di nomina dei Ministri e di scelta del Primo Ministro, ci aveva già, in gran parte, pensato la riforma del sistema elettorale, che, imponendo coalizioni di governo pre-elettorali, riducevano al minimo il potere di nomina del Presidente della Repubblica. L’attuale progetto, in questo caso, chiude definitivamente la questione. Anzitutto, si “costituzionalizza” il principio maggioritario dell’indicazione del Premier nella fase che precede le elezioni e si esplicita la necessità che la legge elettorale favorisca “la formazione di una maggioranza, collegata alla carica del Primo Ministro”. Conseguentemente si prescrive che il Presidente della Repubblica deve nominare il Governo sotto dettatura, cioè non potendo nominare altri che non sia il candidato della coalizione vincente stabilito prima del voto. Se anche in questo caso dovessimo ragionare sulle politiche costituzionali da lungo tempo dibattute, dovremmo constatare che se non c’è stata la trasformazione della forma di governo parlamentare italiana in una forma di governo presidenziale, così come auspicato da alcuni, si rischia però di non riuscire neppure a conservare il ruolo di garante costituzionale che la nostra costituzione ha assegnato al Capo dello Stato, dotandolo di poteri decisivi per la risoluzione degli stati di crisi (nomina del Governo e scioglimento del Parlamento), che finirebbero per venire sottratti alla disponibilità del Presidente. E’ inutile aggiungere che l’indebolimento dei poteri presidenziali non potrà certo essere compensato dalla previsione, contenuta nel disegno di legge costituzionale, che alcuni atti del Presidente non avranno più bisogno della controfirma del Governo.
7.- Sulla modifica dei criteri di composizione della Corte costituzionale, ci si può limitare a due rapide considerazioni. La prima riguarda la funzionalità dell’organo. Il passaggio dagli attuali quindici a diciannove giudici, renderà la Corte un organo collegiale pletorico e poco efficace. E’ noto che già attualmente garantire un’effettiva collegialità delle decisioni comporta non poche difficoltà. D’altronde basta il buon senso per comprendere che più si estende il numero dei componenti del collegio più risulta improbabile che l’organo operi “come un sol uomo”. C’è dunque il fondato rischio che allargando il numero dei giudici (designati inoltre da soggetti istituzionali in quantità superiore rispetto all’attuale) si dia vita ad una Corte più divisa e più confusa dell’attuale. A chi giova?
La seconda considerazione è di carattere sistematico, ed è relativa alla previsione che alcuni giudici siano di designazione “regionale” (lasciando qui perdere il paradosso che nel progetto i giudici “regionali” verrebbero ad essere eletti da quel “Senato federale della Repubblica” che di regionale non ha nulla). Ci si chiede (chi scrive lo chiede da tempo5)) se è ammissibile introdurre in un organo di garanzia costituzionale – che dovrebbe rimanere autonomo rispetto alla dinamica dei poteri governanti e all’articolazione della forma di Stato – giudici di parte: siano essi delle Regioni, siano essi del Governo centrale. Chi conosce la nostra esperienza costituzionale sa bene che un tentativo di appropriarsi del potere di nomina di cinque giudici costituzionali (quelli di spettanza del Presidente della Repubblica) da parte del Governo ci fu in passato. Nel 1951, un emendamento della maggioranza in sede di approvazione della legge sul funzionamento della Corte costituzionale, stabiliva che la proposta (determinante per la scelta dei giudici) al Presidente della Repubblica dovesse essere fatta dal Ministro di Grazia e giustizia e dal Presidente del consiglio, trasferendo così, di fatto, il potere di nomina dei cinque giudici dal primo ai secondi. Allora una decisa reazione politica (ma anche la ferma opposizione “scientifica” dei costituzionalisti: da quella specifica vicenda prese le mosse uno splendido e ben noto saggio di Giuseppe Guarino6)) impose alla maggioranza del tempo di rinunciare a quella proposta. Bisogna sperare nel vento del 1951?
(4 novembre 2003)