1. Il disegno di legge delega per la revisione delle leggi penali militari (di pace e di guerra) non costituisce soltanto un ampio e articolato progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario militare. Nelle sue disposizioni c’è qualcosa di più. Qualcosa – che non esiterei a definire – di inquietante. E ciò non solo per le soluzioni normative che questo progetto concretamente delinea ed avalla, ma soprattutto per gli scenari globali che esso evoca: la costruzione del nuovo ordine mondiale e il ricorso alla guerra preventiva, da esportare con spirito “missionario” come –si evince da alcuni passaggi della stessa Relazione introduttiva – “dove più necessitano gli interventi di pace, dove sembra non si conoscano più limiti alle atrocità”.Obiettivo sotteso alla revisione dei codici penali militari è, infatti, quello di offrire un contributo normativo, dall’interno, alla costruzione del nuovo ordine globale e alle teorie della guerra permanente. Come dire: normare l’emergenza bellica per normalizzare la guerra.
Siamo in presenza – com’è evidente – di un’ulteriore tappa, peraltro assai significativa sotto il profilo interno, della globalizzazione militare. Un processo, questo, di lungo periodo contrassegnato da una progressiva ed endemica crisi del diritto internazionale a cui è andato via via corrispondendo, in questi anni, l’avvio di una articolata e penetrante strategia di rielaborazione degli assetti “globali” (il “nuovo modello di difesa” NATO, l’ingerenza umanitaria, il conflitto bellico come strumento di affermazione delle incalzanti pretese di dominio degli USA).
Sono cose che conosciamo, così come conosciamo anche lo sforzo profuso in questi anni da buona parte della cultura giuridica intenta a ridefinire, su queste medesime basi, le regole dell’emergente ordine internazionale. Un tentativo forte e pervasivo, culturalmente proteso a legittimare il fondamento stesso delle guerre di globalizzazione , fino al punto di sostenere che una nuova consuetudine internazionale che legittimerebbe l’uso della forza nei rapporti tra gli Stati ha già preso il sopravvento e che anche a livello interno “le diverse questioni di legittimità costituzionale dell’impiego delle forze armate all’estero possono essere considerate in gran parte superate da una prassi costante e sostanzialmente non più contestata” . Di qui il convincimento, repentinamente maturato in dottrina, che una travolgente “decostituzionalizzione” (delle norme sulle pace, sulla guerra, sulla difesa, sulle relazioni internazionali) è ormai da tempo in atto e che, in definitiva, finanche lo stesso “richiamo alla clausola della guerra difensiva – sono parole di Giuseppe De Vergottini – non tiene più” .
La riscrittura dei codici penali militari si colloca in questo quadro. Lo si evince dalla stessa relazione al disegno di legge protesa a raccordare il significato della riforma alla costruzione di un nuovo ordine globale e alla sue “nuove prospettive, in cui – viene detto espressamente – l’uso della forza militare diviene strumento e garanzia dei beni essenziali dell’ordine e della stabilità internazionali. Le Forze armate – si legge ancora – sono andate associando alla loro tradizionale e primaria funzione di difesa nazionale altri e nuovi compiti, manifestatisi soprattutto in occasione delle numerose missioni all’estero”.
Siamo oggi in presenza, come si vede, di un processo lungo e articolato sul piano politico, ma altrettanto breve e intenso dal punto di vista normativo. Un processo per molti aspetti riconducibile alla L. 31 gennaio 2002, n. 6 (Conversione in legge con modificazioni del decreto-legge 1 dicembre 2001, n. 421, recante disposizioni urgenti per la partecipazione di personale militare all’operazione multinazionale denominata “Enduring Freedom”. Modifiche al codice penale militare di guerra, di cui al regio decreto 20 febbraio 1941, n. 303”). È, infatti, proprio in quell’occasione che viene, con forza, ostentato per la prima volta il proposito di riesumare il codice penale di guerra per dare vita ad un “ordinamento militare ridefinito” in grado di recepire ed esprimere, allo stesso tempo, le recenti “trasformazioni del quadro internazionale” e i suoi nuovi assetti.
2. E alle trasformazioni del quadro internazionale il progetto di delega si richiama, non a caso, ampiamente. Mi limito ad evidenziarne un solo aspetto, a mio giudizio tra i più significativi. Quello concernente la dimensione giuridica del nemico. Da questo punto di vista la revisione delle leggi penali sembrerebbe ratificare, sul piano normativo, quella che è stato il mutamento di senso, l’alterazione anche semantica della nozione di nemico prodotta in questi anni dalle guerre di globalizzazione. Nel nuovo ordine mondiale – come ho già in passato evidenziato – la definizione di nemico non coincide più infatti con quella di Stato, ma ricomprende al suo interno un inedito universi di significati (dagli individui singolarmente considerati alle organizzazioni di persone). Non è un caso che nel primo Documento sul nuovo concetto strategico dell’Alleanza (Roma, 7 novembre 1991) tale esigenza fosse già stata lucidamente avvertita: oggi – si legge nel Documento – la “sicurezza” degli Stati membri dell’Alleanza non è più posta a repentaglio, come in passato, dalla contrapposizione dei blocchi Est-Ovest o dalla “eventualità di una aggressione premeditata contro il loro territorio”, ma “può essere messa in discussione da rischi di più larga natura, quali … le azioni di terrorismo e sabotaggio”.
Il progetto di legge delega di riforma dei codici militari sembra recepire appieno questo mutamento semantico da una parte trasfigurando la tradizionale nozione di “conflitti armati internazionali” da genus a species, fino a renderla, in definitiva, una ipotesi particolare e non più omnicomprensiva per l’applicazione delle leggi di guerra: uno dei tanti presupposti della loro operatività e non più il solo. Dall’altra dilatando a dismisura la nozione giuridica di “conflitto armato” fino ad estenderla anche ai “conflitti interni prolungati tra le Forze armate dello Stato e gruppi armati organizzati o tra tali gruppi” ( così la lett. i), punto 1, dell’art. 4 del disegno di legge) … quindi alle organizzazioni terroristiche. È interessante a tal proposito evidenziare come in quest’ultima ipotesi (a differenza di quella immediatamente precedente contenuta sempre al punto 1 e nella quale – per intenderci – ci si richiama ai rischi di una “guerra civile o di una insurrezione armata”) manca ogni riferimento al “territorio dello Stato”. Come a dire, a differenza di una guerra civile o di un conflitto “fra gruppi di persone organizzate con le armi all’interno del territorio dello Stato”, la guerra contro il terrorismo è legittima ovunque, anche al di fuori dei confini statuali. Appare opportuno altresì segnalare che questa estensione della fattispecie normativa del conflitto armato rischia di ritorcersi gravemente, dal punto di vista processuale, anche sulle garanzie giurisdizionali individuali, sottoponendo intere categorie di soggetti ai Tribunali militari.
Con la revisione dei codici militari le guerre di globalizzazione verrebbero quindi, in definitiva, normate e con esse anche i loro nobili obiettivi: la tutela dei diritti umani e la lotta al terrorismo internazionale, destinati “finalmente” a trovare la loro “prima attualizzazione […proprio in…] questo corpo normativo”. Un corpo normativo – come si legge espressamente nella relazione introduttiva al disegno di legge delega – imperniato sulla indefettibile esigenza di offrire un rapido e coerente “aggiornamento al diritto internazionale umanitario” al fine di assecondare le tendenze militari globali e, in particolar modo, quella connessa e “pressante spinta di dare uno status giuridico congruo all’operazione internazionale di lotta al terrorismo”.
2. Da questo punto di vista il progetto di legge pare quindi ampiamente rispondente ai suoi propositi politici, rivelandosi nel suo impianto di fondo coerente e anzi per molti aspetti complementare agli scenari delineati dalle guerre di globalizzazione. Dove il progetto di legge delega appare invece assolutamente carente è il secondo fronte: quello della armonizzazione delle leggi militari ai principi fondamentali della Costituzione repubblicana. Un pretesa questa resa indifferibile – come si leggeva nella relazione introduttiva alla legge 6/2002 – dall’esigenza di rivedere molte norme del codice che “appaiono … con indiscutibile evidenza contrastanti con i valori costituzionali”. Su questo terreno la riforma ci appare non solo fallimentare, ma in contraddizione con le sue stesse finalità. Certo è vero come è stato adeguatamente evidenziato dal dibattito parlamentare – che l’art. 4, alla lettera p, invoca l’abrogazione dell’art. 75 (concernente la diffusione di particolari notizie di interesse militare) perché ritenuta in contrasto con la libertà di stampa. Ma tale “concessione” – è bene precisarlo – avviene all’interno di un quadro normativo contrassegnato, all’opposto, da una latente e sistematica compressione delle garanzie costituzionali. Sia perché tali “concessioni” – come mi piace definirle – appaiono alquanto circoscritte e non coinvolgono altre disposizioni altrettanto lesive della libertà di manifestazione del pensiero (si pensi all’art. 77 del codice che punisce la divulgazione di false notizie sull’ordine pubblico o su altre cose di interesse pubblico). Sia in ragione della commutazione di una serie alquanto ampia e (pericolosamente) indeterminata di reati comuni in reati militari.
La riforma, sulla scia della legge 6/2002, prevede, infatti, la militarizzazione di tutti i delitti contro la personalità dello Stato, contro la Pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia, contro l’incolumità pubblica. E anche dei delitti contro la persona qualora commessi da militare a danno di altro militare in circostanze per la verità … assai poco circostanziate (in luogo militare, nel territorio estero nel corso di una missione e così via).
Una così massiccia e pervasiva militarizzazione dei reati comuni è destinata a ritorcersi gravemente non solo sugli attuali assetti dell’ordinamento giurisdizionale, ma più complessivamente su tutto sistema delle garanzie, producendo, da una parte – diciamo sotto il profilo oggettivo – una drastica compressione dell’area del controllo di legalità della giurisdizione ordinaria a tutto vantaggio della giurisdizione militare. Dall’altra, e quindi, sotto il profilo soggettivo, a una incauta espansione della giurisdizione dei Tribunali militari anche ai non militari.
Un aspetto questo che non può che suscitare forti perplessità anche in ragione degli strumenti normativi a tal fine predisposti. La delega non può di certo ritenersi, dal punto di vista costituzionale, l’istituto più congeniale per perseguire tali obiettivi. Soprattutto se essa presenta un impianto eccessivamente duttile e generico come nel progetto di legge in esame. Non è un caso che il giudice costituzionale abbia in più circostanze persuasivamente sollecitato l’impiego di principi e criteri direttivi il più possibile incisivi e circoscritti qualora la delega vada a incidere sulle libertà costituzionali e sui diritti fondamentali (sentt. 250/1991; 53/1997; 49/1999; 427/2000; 251/2001; 212/2003).
Dall’altra parte, seppure in maniera frammentaria e discontinua, dottrina e giurisprudenza costituzionale (si pensi in particolare alla sent. cost. n. 213 del 1984), hanno allo stesso tempo in questi anni sufficientemente chiarito che le fattispecie criminose sottese al reato militare debbano comunque avere una relazione con interessi militari. E tutto ciò al preminente fine di evitare un “eccesso di militarizzazione” e, in definitiva, un incauto ritorno al reato militarizzato.
La revisione delle leggi penali militari sembrerebbe invece preludere a una sorta di inversione di tendenza, a un repentino abbandono di tale prospettiva. Essa tende ad affrancarsi definitivamente da quella concezione giuridica secondo la quale l’essenza obiettiva del reato militare sta nella sua connessione oggettiva con un interesse militare e nella intrinseca dimensione soggettiva o, come si era soliti dire in passato, nella “qualità militare del colpevole” . Una concezione che l’entrata in vigore della Costituzione, in polemica con le tendenze arbitrarie del ventennio fascista, ha inteso ulteriormente riaffermare. E così anche ha fatto, valorizzando tali premesse costituzionali, il giudice delle leggi che in questi anni ha ripetutamente escluso una interpretazione estensiva della nozione soggettiva di “appartenenti alle Forze armate”, preferendo, di converso, far coincidere tale accezione con quella di “militari” ex art. 3 e art. 5 del c.p.m.p. (mi riferisco, in particolare, alla sentenza della Corte costituzionale n. 429 del 23 ottobre 1992).
4. Ma ciò che colpisce in modo particolare in questo progetto è l’azzardo costituzionale, la temeraria operazione da esso perseguita di aggirare surrettiziamente le norme costituzionali in materia di giurisdizione militare. Basti pensare all’abusivo utilizzo che è stato fatto delle disposizioni contenute all’art. 103 della Costituzione, maldestramente utilizzate dal disegno di legge per dilatare la sfera giurisdizionale di competenza dei Tribunali militari. A questo proposito va, preliminarmente, evidenziato che l’articolo 103, terzo comma, della Costituzione pone limiti alla giurisdizione militare, ma solo per il tempo di pace, mentre attribuisce alla piena disponibilità della legge ordinaria la determinazione della giurisdizione per il tempo di guerra. Così ricorrendo ad una sorta di escamotage esegetico, il progetto governativo sembrerebbe, da una parte, affrancarsi definitivamente dalle disposizioni costituzionali previste per il tempo di pace che, come si è detto, vincolano la competenza della giurisdizione militare ad una ben circoscritta sfera di soggetti: gli “appartenenti alle Forze Armate”. E dall’altra, sembrerebbe, invece farsi scudo della disposizione normativa contenuta al primo inciso del terzo comma dell’art. 103 ( “i tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge”) per limitare drasticamente l’ambito di azione della giurisdizione ordinaria. Ma, nel far ciò, il progetto di delega sottopone (o meglio è costretto a sottoporre) la nozione costituzionale “tempo di guerra” ad una torsione interpretativa talmente profonda da assorbire finanche la nozione di “tempo di pace”. D’altronde l’indistinzione pace-guerra è parte integrante del disegno di legge delega. Un disegno che tende a contemplare al suo interno un quadro alquanto flessibile e articolato di opzioni: le azioni di peace keeping e il conflitto bellico, la difesa armata e l’uso indistinto della forza, la pace e la guerra. La chiarezza con la quale la Relazione introduttiva illustra le “virtuose” ambiguità di questo modello è esemplare: nella legge di delega – si legge a questo proposito a pagina 5 – “lo statuto penale delle operazioni militari armate all’estero viene configurato – conformemente alla crescita della loro importanza – in termini modulati … si va, cioè dalla situazione estrema – quella della vera e propria guerra difensiva – in decrescendo verso modulazioni diverse dell’uso della forza militare, sostanzialmente fino al peace keeping, in modo tale da assicurare la congruenza e la proporzionalità dell’esigenza di coesione rispetto al contesto operativo generale dell’azione militare”.
5. La dicotomia costituzionale “tempo di pace – tempo di guerra” viene così via via distillata dal disegno di legge delega, fino alla sua pressoché integrale dissoluzione. Al suo posto verrebbe, di converso, profilandosi una zona grigia dai contorni normativi flebili e indistinti. E dicendo ciò non mi riferisco soltanto alla esplicita istanza di conservazione – contenuta nella delega – dell’automatismo della integrale applicazione della legge penale militare di guerra ai corpi di spedizione all’estero in tempo di pace (già sotteso, d’altronde, all’articolo 9 del c.p.m.g.). Ma soprattutto al tentativo di sganciare definitivamente le disposizioni contenute nel codice militare dall’istituto della deliberazione dello stato di guerra ex art. 78 Cost. La lett. L) dell’art. 4 del progetto menziona, infatti, espressamente la possibilità di “applicazione della legge penale militare di guerra, anche indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra”, non diversamente da quanto faceva l’art.2, primo comma, lett. d della L. 31 gennaio 2002, n. 6 che, a tal proposito, stabiliva che le disposizioni contenute nella legge “si applicano in ogni caso di conflitto armato, indipendentemente dalla dichiarazione dello stato di guerra”. Il tentativo di aggirare le norme costituzionali sulla guerra è, in questo quadro, evidente. Attraverso l’impiego di simili escamotage si intende perseguire la definitiva rimozione sul piano giuridico (oltre che simbolico) dell’istituto dello “stato di guerra”. Un istituto che dopo esser stato ripetutamente “circuito” (dalla guerra del Golfo all’Iraq) si vuole ora espungere in tutte le sue implicazioni anche dalle leggi militari di guerra, fino al punto di far discendere la legittimità di tale soluzione dalla assiduità della prassi illegittimamente seguita in questi anni. Anche a questo proposito la relazione introduttiva al disegno di legge appare stupefacentemente chiara: le missioni e “l’impiego operativo delle Forze armate all’estero nell’ambito di operazioni internazionali di pacificazione o di uso della forza … come la prassi ha dimostrato, non richiedono il passaggio da uno stato di pace a uno di guerra”. È questa la posta in gioco della partita che oggi si è aperta sul terreno costituzionale. E a nulla valgono i contorsionismi interpretativi contenuti nella Relazione introduttiva intenti a distinguere la nozione di “tempo di guerra” da quella di “stato di guerra”. La prima – si dice – mera espressione di una situazione concreta e di fatto. La seconda, invece, palese manifestazione di una volontà giuridica, di “uno stato di diritto, che deve essere deliberato e dichiarato secondo norme giuridiche interne”. Tale discrimine interpretativo non convince. È vero che delle differenze tra le due espressioni esistono e che esse non fondano, come si è invece talvolta ritenuto, una endiadi. Ma si tratta pur sempre di differenze di tipo giuridico, che attengono cioè a due differenti nozioni giuridiche. Entrambe le definizioni appartengono, in altre parole, al diritto. Lo stato di guerra (così come anche il “caso di guerra” ex art. 60) al diritto sostanziale (e costituzionale). Il tempo di guerra al diritto processuale (e penale-militare). La Costituzione, utilizza non a caso la definizione “tempo di guerra” in alcuni contesti “giurisdizionali” ben definiti: a) nell’attribuire alla legge la competenza dei tribunali militari (art. 103, 3 comma); b) nel derogare alla norma che ammette il ricorso in Cassazione, limitatamente alle “sentenze dei tribunali militari in tempo di guerra” (art. 111, comma 7). Ne deriva che il tempo di guerra non può che decorrere, sul piano giuridico, dalla dichiarazione dello stato di guerra. È questo l’evento che segna l’entrata in vigore delle leggi di guerra, la condizione risolutiva e immanente della loro applicabilità. È quanto si evince, in modo particolare, dallo stesso art. 3 del codice penale militare di guerra nel quale troviamo scritto: “La legge penale militare di guerra si applica … dal momento della dichiarazione dello stato di guerra fino a quello della sua cessazione”. E ipotesi speciali, di deroga a questo principio – sebbene contenute in alcune disposizioni dello stesso codice – sarebbe bene che restassero tali e non venissero invece dilatate a dismisura con il rischio di trasformare la deroga in principio, l’eccezione in regola. Il timore che avverto è quello di un insidioso e progressivo assorbimento dello stato di pace nello stato di guerra. Un ulteriore cedimento all’ideologia della guerra permanente e ai suoi terribili progetti: nel nuovo ordinamento globale la guerra va normalizzata. La dimensione bellica – come ci ricorda, d’altronde, anche la Relazione – fa oramai parte della nostra vita, del nostro orizzonte quotidiano. Fa parte, viene detto espressamente, del “tempo normale di vita dell’ordinamento giuridico”. Come dire l’emergenza bellica è destinata a divenire la norma … anzi non è più emergenza perché nel nuovo ordine globale la guerra è oramai “in grado di coesistere con una normale situazione ordinamentale”. Siamo in presenza, com’è evidente ad un’ulteriore accelerazione del processo di normativizzazione dello stato di eccezione, inteso come “paradigma di governo dominante della politica contemporanea”. Una tendenza, questa, che ha recentemente raggiunto “il suo massimo dispiegamento planetario” con tutte le sue perversioni e i suoi paradossi. Nel nuovo ordine globale “l’aspetto normativo del diritto – come recentemente evidenziato da Agamben – può essere così impunemente obliterato e contraddetto da una violenza governamentale che, ignorando, all’esterno, il diritto internazionale e producendo, all’interno, uno stato d’eccezione permanente, pretende tuttavia di stare ancora applicando il diritto” .
6. Eppure di una riforma c’è bisogno. La prassi parlamentare utilizzata per l’invio di missioni militari all’estero ha, ripetutamente, in questo decennio, dimostrato come il nostro ordinamento è giuridicamente sprovvisto di una normativa generale idonea a disciplinare le differenti tipologie di utilizzo delle Forze armate, in particolare al di fuori dei confini nazionali. Una lacuna, questa, che, ha contribuito ad aggravare ulteriormente la condizione di marginalizzazione politica delle Camere. Basti pensare che a partire (perlomeno) dalla guerra nel Golfo, il coinvolgimento del Parlamento nelle decisioni di politica militare è quasi sempre avvenuto contestualmente o (ancora più spesso) successivamente all’invio della missione. Di qui i ristretti margini di intervento e di decisione delle Camere, generalmente coinvolte solo nella fase successiva a quella dell’avvio delle operazioni militari attraverso la mera approvazione di atti di indirizzo (spesso alquanto generici nella loro formulazione) o (com’è frequentemente accaduto) solo in sede di conversione dei decreti-legge per il finanziamento delle missioni . La legge di riforma, anziché, contrastare tale esito sembrerebbe però consolidarlo ulteriormente. Incrinatosi il parallelismo funzionale che faceva discendere, in linea di principio, l’applicazione delle leggi militari di guerra dalla dichiarazione dello stato di guerra ex art. 87 della Costituzione, il quadro normativo delineato dall’attuale progetto di riforma appare – soprattutto in alcuni suoi tratti essenziali – contraddittorio ed evanescente. La delega tende ad eludere questioni salienti e nodi strutturali che non esiterei a definire di principio. Essa risente, infatti, di una eccessiva duttilità di impianto determinata dall’introduzione di principi e criteri direttivi alquanto generici e controversi, alcuni dei quali aventi addirittura una connotazione “macrosettoriale”. A chi compete dichiarare l’applicazione, in situazioni di crisi, delle leggi militari di guerra? Con quali strumenti normativi? Qual è il ruolo che il Parlamento è chiamato a giocare in questa partita? Quali gli strumenti di garanzia? Tutte domande che, come si è visto, rimangono all’interno del testo gravemente eluse. In un quadro, così caotico, sotto il profilo normativo il Parlamento si trova ancora una volta costretto a subire la marginalità della propria condizione nella determinazione dell’indirizzo politico militare. E tutto ciò a esclusivo vantaggio dell’esecutivo. Sarà, infatti, il governo che, nel recepire la delega, dovrà, in maniera pressoché incontrastata, scegliere quali strumenti impiegare, quali soggetti coinvolgere, quali soluzioni normative privilegiare. Ecco perché più che del progetto di legge io sarei sin da ora seriamente preoccupato per l’attuazione concreta che il governo intenderà dare ad una delega così ampia e generica. Bisogna allora tentare di invertire la rotta e tentare di recuperare un’altra idea di codice militare, incardinato sui principi costituzionali, che riconosca la centralità del parlamento e che soprattutto sia in grado di fare i conti con quel ripudio della guerra che è parte integrante della Costituzione repubblicana e oggi anche della coscienza politica di tanta parte dell’opinione pubblica (italiana e internazionale). La difesa della legalità democratica e della Costituzione non può prescindere da tale impegno.