1. Premessa: giugno 1998 – settembre 2003
La proposta dell’attuale Governo di modificare i criteri di composizione della Corte costituzionale per “dare voce” alle Regioni, non è del tutto originale. Fu infatti nella passata legislatura che prese forma l’idea in base alla quale la trasformazione della nostra forma di Stato da “regionale” a “federale”, dovesse implicare anche la c.d. “regionalizzazione” della Corte costituzionale (mediante la designazione da parte delle Regioni di parte dei componenti l’organo di garanzia costituzionale). Quest’idea si tradusse in una proposta della Commissione bicamerale “per le riforme costituzionali”, di modifica dell’articolo 135 della nostra Costituzione. L’ipotesi allora formulata fu da me (ma anche da parte importante della dottrina costituzionalistica) fortemente criticata, ritenendo infondati gli stessi presupposti che venivano posti per giustificare la designazione da parte delle Regioni di giudici costituzionali: si ritiene infatti che una modifica della forma di Stato di tipo “federale” (in cui vanno ad estendersi i poteri delle autonomie territoriali) non implica il coinvolgimento della Corte costituzionale e tantomeno pretende la trasformazione dei criteri di composizione. Anzi, diverse ragioni (che verranno più avanti esposte) esigono di rafforzare la funzione caratteristica della nostra Corte costituzionale di istituzione posta a salvaguardia “dell’unità dell’ordinamento costituzionale”, proprio in una fase in cui si tende ad estendere il peso delle autonomie politiche in chiave “federalistica”. Funzione che – come più avanti argomento – la designazione di giudici costituzionali “regionali” finirebbe invece per compromettere.
Oggi il Governo in carica presenta un progetto di legge costituzionale in cui – tra l’altro – si propone ancora una volta la modifica dell’articolo 135 della Costituzione, introducendo una componente di giudici di derivazione regionale. Diversi sono le specifiche modalità d’attuazione, nonché l’impianto complessivo entro cui è inserita la proposta (oltre che ben differenti sono il clima politico ed i rapporti di forza tra gli schieramenti politici e culturali). Per dare un giudizio definitivo dell’attuale proposta dovranno essere considerati alcuni aspetti, che al momento (sulla base dello schema del Disegno di legge costituzionale predisposto in estate da alcuni parlamentari e approvato da un vertice dei leaders dei partiti di maggioranza il 30 agosto 2003) non appaiono sufficientemente definiti: sarà ad esempio fondamentale sapere in che modo e come si designeranno i giudici costituzionali “regionali”; se si giungerà alla costituzione di una “Camera delle Regioni” (cui verrà attribuito il compito di eleggere i giudici costituzionali “regionali”), sarà decisivo conoscerne l’effettiva configurazione per capire la rappresentatività di quest’organo che – come è noto – è decisivo per definire il modello complessivo di forma di Stato. Sarebbe avventato, prima dell’inizio della discussione in Parlamento, esprimere valutazioni sulle specifiche questioni. Si tornerà in altre occasioni su questi aspetti.
Ciò che invece appare fin d’ora importante discutere è la filosofia di fondo che sorregge l’intera proposta. La stessa che ispirò il progetto di formazione parlamentare (della Commissione bicamerale) durante la passata legislatura. Sotto questo profilo appaiono di assoluta attualità le critiche che furono allora mosse al progetto della Commissione bicamerale. Per questo si ritiene utile riprodurre – senza apportarvi alcuna variazione – parte di uno scritto in cui, “in tempi non sospetti”, tali critiche furono mosse alla proposta di modificare gli attuali criteri di composizione della Corte costituzionale per “favorire” la trasformazione della forma di Stato italiana in senso maggiormente federale.
La riproduzione di uno scritto per giudicare l’ipotesi di modifica della composizione della Corte costituzionale avanzata dall’attuale Governo, ma nato per criticare una proposta di modifica costituzionale elaborata in un clima politico assolutamente diverso, vuole essere anche una provocazione.
Anzitutto una provocazione intellettuale: se le critiche di principio di allora “reggono” al mutamento politico, ne deve conseguire che c’è – al di là delle esasperazioni verbali delle forze politiche – una notevole continuità nelle politiche costituzionali degli ultimi anni. Il che – sia detto a chiare lettere – per chi, come chi scrive, esprime dei dubbi di fondo sulle modifiche proposte non può che inquietare.
Inoltre una provocazione alla coerenza intellettuale: in un clima politico e culturale confuso, la riflessione “accademica” deve conservare i suoi specifici presupposti di legittimazione, fondati sul valore e non invece sullo scopo, per questo deve svolgersi in base al principio di coerenza. Con frequenza eccessiva ci si sente chiedere se gli argomenti “scientifici” siano determinati da finalità politiche. Su questo vogliamo provocare, mostrando che le critiche di oggi sono le stesse di ieri, non per esprimere un atteggiamento d’indifferenza rispetto alla Politica ed alle sue vicende istituzionali (l’idea della scienza “neutrale” non è la nostra), ma per sostenere le ragioni della riflessione scientifica che non può essere mai ridotta, pure nel suo travagliato rapporto con la Politica, alle ragioni di quest’ultima. Una posizione di coerenza che ci sentiamo di promuovere, tanto più in un luogo di riflessione “non neutrale” ed in cui si cerca di sollecitare il dibattito tra studiosi secondo una prospettiva di critica delle culture prevalenti (seguendo la linea editoriale di questo sito).
Certo è che la provocazione non ci consola. La continuità (almeno di alcune) delle filosofie riformiste nei diversi schieramenti politici ci sembra anche il frutto dei tempi confusi che stiamo attraversando. C’è un gran bisogno di approfondire – denunciando, ma anche elaborando – le diverse proposte di modifica del nostro sistema costituzionale. Un compito essenziale ed urgente della dottrina costituzionalistica. Ma è sufficiente?
In Cina, per sancire la fine della rivoluzione culturale e dare inizio ad una nuova fase politica fondata su principi di efficienza tecnologica, Deng Xiaoping inventò un aforisma: “Non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che agguanti i topi”. Riflettendo sulla contiguità, ma anche erroneità, delle politiche costituzionali degli ultimi anni che si sono registrate in Italia (Paese che, se non ha bisogno di una rivoluzione culturale, è però ancora in attesa di quella “riforma intellettuale e morale”, di gramsciana memoria) verrebbe da modificare la massima cinese in questo modo: “Non importa se i topi sono bianchi o neri, l’importante è che ci sia un gatto che l’afferri”. Ma, dov’è il gatto?
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21 . [3.] a) Principio di unità dell’ordinamento costituzionale (l’unità nel nome della superiore legalità costituzionale)
Nelle democrazie pluraliste le Corti costituzionali si propongono e si affermano come garanti dell’unità dell’ordinamento costituzionale. E’ qui che si rinviene la legittimazione più propria e più profonda della Corte. Una unità, quella dell’ordinamento costituzionale, che si esprime e si sostanzia nel rispetto della legalità costituzionale: della unitaria e unica legalità costituzionale.
Perciò la riforma costituzionale deve tendere a rafforzare il principio di unità nel nome della superiore legalità costituzionale2 . Un principio di unità, nelle democrazie pluraliste, tanto più rilevante in quanto strettamente legato a (immedesimato con) quel particolare testo giuridico che è la Costituzione. Un testo in cui si esprime e trova fondamento il riconoscimento di un popolo e le ragioni della convivenza comune di una nazione, con forte valenza integrativa. Negli Stati costituzionali è nelle Costituzioni che si rinviene infatti la fonte di legittimazione ultima dei poteri, ed è nel rispetto della sua legalità che poggia l’unità del complessivo ordinamento giuridico (costituzionale).
Alla Corte è stato affidato, nel nostro ordinamento costituzionale, quale suo compito essenziale, la tutela di questa specifica unità. Il suo ruolo non può allora confondersi con quello di altre istituzioni, che sono chiamate a dar voce a principî diversi.
Ciò che in particolare qui interessa mettere in evidenza è che il principio di legalità costituzionale, inteso come principio necessariamente unitario, che alla Corte essenzialmente spetta tutelare, non ha nulla a che spartire – rimanendo ad esso estraneo – con il principio delle autonomie territoriali. I piani della legalità costituzionale e quello della modifica della forma dello Stato sono – e devono rimanere – separati.
Così, il pur fondamentale principio delle autonomie politiche (pubbliche e territoriali)3 , che nell’ottica dello Stato federale sembra volere trovare la sua massima diffusione, e che appare essenzialmente affidato alle specifiche istituzioni politiche (ma in realtà si tratta in questo caso di valutare la concreta articolazione dell’organizzazione dello Stato e la effettiva diffusione dei poteri e delle competenze, nonché i processi dinamici che vengono in tal modo innescati4), non sembra potere trovare accesso nella logica della Corte. Non tanto perché siano di per sé inconciliabili principio di unità e principio autonomista, quanto perché il principio di unità espresso dalla Corte (l’unità nel nome della superiore legalità costituzionale) e quello autonomistico espresso da un eventuale Stato federale (e dalle sue istituzioni politiche), si pongono tra loro non in rapporto di opportuno completamento, bensì in quello di necessaria separazione.
Si osservi, in proposito, che il politeismo dei valori proprio delle democrazie contemporanee, non significa assimilabilità dei diversi valori, né indistinta cumulabilità sul piano dei loro principî di riferimento. Se, dunque, il politeismo ha portato all’affermarsi nelle Carte costituzionali di principî costituzionali tra loro eterogenei, non per questo è facilmente superabile il problema del loro raccordo e valorizzazione, che si configura invece come una questione tra le più problematiche e decisive per il funzionamento degli Stati costituzionali contemporanei e per la realizzazione dei principî da questi affermati. Il raccordo e la valorizzazione tra principî costituzionali eterogenei può porsi sia nell’ottica di un possibile loro completamento (e dunque reciproca assimilazione), sia – e diversamente – in quella della loro necessaria separazione (e dunque reciproca contrapposizione)5 . Per quanto riguarda la Corte, la valorizzazione del principio di unità esclude quello di autonomia, mentre appare legarsi alla (essere parte della) effettiva realizzazione del più ampio principio pluralistico.
Tanto più se si considera che preservare il principio di legalità costituzionale come principio unitario, risulta ancor più essenziale in tempi quali sono i nostri, ove la struttura pluralistica della società appare sofferente e lacerata. Solo una netta difesa del principio di unità dello Stato costituzionale può assicurare infatti che il distinto principio delle autonomie politiche non subisca una torsione separatista, riuscendo così a ridurre i rischi di degenerazione di processi politici che, tradendo l’esigenza di modificare la forma di Stato al fine di esaltare le autonomie e i poteri territoriali, finiscano per fare precipitare il Paese nelle tragiche logiche della divisione della comunità nazionale e, dunque, del suo ordinamento costituzionale.
Non può dirsi d’altronde che la rigorosa difesa del principio di unità dello Stato costituzionale limiti il principio autonomista, poiché questo (anche se spinto ai limiti del più estremo federalismo) non può certo aspirare ad incrinare il rispetto della legalità costituzionale come principio unitario.
Si può affermare invece che una Corte capace di rappresentare un decisivo fattore di integrazione in forza della pretesa vigenza della superiore legalità costituzionale, può costituire un importante presupposto per il pieno esplicarsi del principio di autonomia politica, a condizione che rimanga del tutto estranea alle logiche della divisione politica autonomistica: una garanzia di pluralismo nel nome dell’unità6.
3. [3.1.] (segue:) L’ipotesi di designazione da parte delle Regioni di una quota di giudici
Alla luce delle osservazioni svolte al paragrafo precedente appare di emblematica incompatibilità con la funzione che la Corte deve esercitare nel nostro ordinamento costituzionale la proposta di designazione di una quota di giudici costituzionali direttamente da parte delle autonomie locali.
La proposta si ritiene ispirata all’esigenza di favorire il processo di estensione del principio di autonomia politica della forma di Stato: quel processo che dovrebbe trasformare l’attuale Stato regionale in uno Stato di tipo federale (che, peraltro, nel disegno proposto dalla Commissione appare alquanto confuso7). Ma la designazione diretta di alcuni dei giudici costituzionali da parte di un collegio formato dai rappresentanti dei Comuni, delle Province e delle Regioni che integrano il Senato in sezione speciale (art. 135 del progetto8), rischia di rilevarsi misura che favorisce esiti opposti a quelli desiderati, indebolendo il processo di estensione del principio autonomista, espresso da una trasformazione in senso federale della forma di Stato, che – si è prima spiegato – non verrebbe a essere rafforzato da misure siffatte, bensì rischierebbe di perdere una delle condizioni per una sua non rischiosa realizzazione.
Verrebbe in tal modo anche a minarsi il principio di unità costituzionale tutelato dalla Corte, trovandosi forzatamente e impropriamente collegato ad un principio ad esso estraneo.
La proposta della Commissione configura un’ipotesi che sancisce una connessione diretta e istituzionalmente predefinita tra alcuni giudici costituzionali e – anziché la comunità nazionale – le entità politico-territoriali divise, nell’ambito di una istituzione che invece deve garantire l’unità della legalità nazionale e costituzionale.
Le perplessità avanzate, dunque, riguardano un sistema di designazione diretta da parte degli organi istituzionali delle entità territoriali di giudici costituzionali. Un collegamento e un modo di designazione che viene esplicitamente giustificato al fine di tutelare, ovvero dare voce agli interessi delle comunità locali. Una classica designazione in rappresentanza di interessi (particolari). Questi giudici, inviati alla Corte senza alcuna mediazione parlamentare, espressione diretta degli enti locali, sarebbero “naturalmente” i giudici “delle autonomie”, così come in ipotesi avverrebbe se la designazione di una parte dei giudici fosse fatta direttamente dalla maggioranza, ovvero dal Governo. E’ allora facile prevedere che nel contenzioso tra Stato, Regioni, Province e Comuni (tanto più esteso e rilevante ove fosse approvato il “federalismo confuso” definito nel progetto di revisione9, ampliato anche dalle nuove competenze assegnate alla Corte, come più avanti vedremo) l’imparzialità e l’indipendenza di quei giudici sarebbe dubbia10.
Diversamente dovrebbe essere giudicata un’eventuale partecipazione di enti espressioni (anche) delle autonomie territoriali nella designazione dei giudici costituzionali nell’ambito dell’organizzazione dello Stato nazionale. Così come avverrebbe, ad esempio, ove si istituisse un Senato delle regioni (non delle garanzie) e una quota dei giudici rimanesse di nomina del Parlamento in seduta comune11. Un’ipotesi questa auspicabile, venendo a valorizzare non un principio estraneo alla logica propria della Corte, come quello della autonomia politica, bensì il diverso e più ampio principio pluralistico. Quest’ultimo principio certamente riconducibile a quello di unità della legalità costituzionale, ed anzi ad esso legato in un rapporto di reciproco completamento.