Regna da alcuni giorni, con l’accentuarsi della tensione nell’Irak occupato, una crescente confusione circa lo status, i doveri e i poteri delle forze armate della cosiddetta Coalizione ed in specie dei soldati italiani. Fonte di inesauribili speculazioni giornalistiche e politiche sono in particolare le vicende degli immondi abusi commessi dalla polizia militare ai danni dei detenuti nelle carceri controllate dalle forze occupanti e dei limiti all’uso consentito della forza per i soldati di stanza in Irak derivanti dalle cosidettette RoE (Rules of Engagement). Sfugge l’intera questione, certo inedita per l’Italia, ad un chiaro tentativo di inquadramento giuridico, offuscata – anche comprensibilmente – dalla indignazione e dalla preoccupazione per la sorte dei civili e dei militari. Più ampiamente, nei rapporti tra i piani inclinati della nuda forza e del diritto, il primo tende oggi – di fronte all’accentuarsi della dimensione strettamente bellica dell’intervento – ad imporsi brutalmente sul secondo, così rischiando di travolgere le capitali acquisizioni in termini di umanità e civiltà che, a durissimo prezzo, sono state raggiunte mediante l’affermazione delle regole del diritto dei conflitti armati (più ampiamente, oggi, diritto internazionale umanitario), codificate a Ginevra nel 1949 e poi da allora ulteriormente consolidatesi, del diritto dei diritti dell’uomo, che fa divieto assoluto di atti degradanti della dignità personale, del diritto internazionale penale, che pone il principio della responsabilità individuale per crimini contro l’umanità, e dello stesso diritto interno che, sia pure variamente stratificatosi nel tempo, inquadra strettamente la condotta delle forze armate anche all’estero.
Per rovesciare i piani, e ricondurre l’agire delle forze armate entro un terreno di comprensibile linearità giuridica, occorre anzitutto tentare di ricostruire lo scenario giuridico entro il quale si muovono i soldati, attenendosi ad alcuni dati di fatto noti agli addetti ai lavori ma raramente messi a fuoco nel più ampio dibattito mediatico. Con l’avvertenza che il quadro delle disposizioni applicabili risulta a tal punto complesso – non solo per il convergere sulla scena irakena di una molteplicità di ordinamenti e di livelli normativi e regolamentari estremamente eterogenei, ma anche per la riservatezza che circonda cospicue porzioni di tale puzzle giuridico – che la riflessione su questi profili deve necessariamente confrontarsi con alcune ricostruzioni di natura ipotetica e non può esimersi dal formulare alcuni quesiti al momento senza risposta.
Dirimente, circa la legittimità dell’intervento, è la sua discussa riconducibilità entro i limiti imposti dall’art. 11 della Costituzione repubblicana per il quale, notoriamente, l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e consente alle limitazioni di sovranità necessarie ad assicurare la pace tra i popoli in condizioni di parità con gli altri Stati. Conta certo formalmente per l’Italia che un tale vaglio sia stato preventivamente effettuato con esito favorevole dal Consiglio supremo di difesa e dal Parlamento, ma non potrà negarsi che il mondo della politica e quello del diritto sono trasversalmente divisi circa la lettura da dare a tale disposizione, come lo furono già in occasione dei bombardamenti sulla Serbia e sul Kossovo, e sulla valenza delle operazioni fuori area – nelle diverse accezioni del peace keeping / peace building / peace enforcement – storicamente estranee al progetto del costituente del 1948.
Astraendo la riflessione da tale pregiudiziale di costituzionalità – al momento politicamente superata dalla decisione immutata dell’intervento, ma giuridicamente ‘aperta’ e problematica, come voci autorevoli hanno già ampiamente segnalato e come via via appare più chiaro, se si consente con i più circa il mutamento progressivo della natura dell’intervento in atto – si può tentare di scendere nel dettaglio delle questioni legali che lo scenario irakeno solleva, con l’attenzione rivolta alla limitazione dell’uso della forza, giacché è questo che la Costituzione e i testi internazionali ci impongono.
In aderenza al principio della ‘legge penale nello zaino’, i militari italiani all’estero sono astretti all’osservanza delle disposizioni penali interne e sono assoggettati alla giurisdizione esclusiva dei giudici italiani: tale riserva di foro, ordinariamente derivante da accordi conclusi tra il governo locale e le forze straniere di peace keeping mediante i cd. accordi Sofa (Status of force agreements), sembrerebbe essere assicurata nel caso di specie – e il condizionale è d’obbligo, in assenza di precisi riscontri documentali – da ordini emessi dalla Coalition Provisional Authority (Order Number 17 Status Of The Coalition, Foreign Liaison Missions, Their Personnel And Contractors), che si sostituisce fino al 30 giugno alle autorità irakene.
Il Governo italiano, con l’avallo del Parlamento, ha ritenuto di applicare, come già fece agli inizi del 2002 per la missione Enduring Freedom in Afghanistan, il Codice penale militare di guerra al contingente italiano di stanza in Irak, nonché a tutti coloro che con questo collaborino in territorio nazionale o estero. La scelta riporta innovativamente in auge, e l’avverbio potrebbe suonare inopportunamente ironico, la legislazione varata dal governo fascista nel 1941 e poi successivamente emendata di alcune delle sue parti maggiormente in tensione con la Costituzione (prime fra tutte la pena capitale abrogata solo nel 1994), che era rimasta in sonno per oltre sessanta anni, essendosi nel frattempo ritenuto opportuno applicare alle numerosissime missioni che l’Italia è andata svolgendo, il coevo codice militare di pace. Con l’avvertenza che modifiche sostanziali, di necessario adeguamento del Codice di guerra, sono intervenute oltre un anno dopo la sua applicazione, con un intervento legislativo del marzo 2003. Facendo leva su una disposizione relativa ai corpi di spedizione all’estero, concepita da legislatore fascista con l’occhio rivolto alle imprese coloniali, si è questa volta inteso affermare la vigenza (sospesa ad hoc in altre precedenti missioni) di una legislazione concepita inizialmente per le esigenze belliche, ritenendola maggiormente adeguata ai nuovi teatri di intervento. In contemporanea, si è ritenuto in sede parlamentare di poter fare a meno della dichiarazione dello stato di guerra, scelte che –nella loro combinazione- collocano l’Italia in una situazione peculiare nello scenario europeo.
Tra i numerosissimi profili degni di nota nell’opzione italiana, si apprezza la volontà di rendere applicabili all’estero le norme di diritto internazionale umanitario che solo figurano nel codice di guerra, dimenticandosi purtuttavia che quelle disposizioni, storicamente connotate e di otto anni precedenti alle convenzioni di Ginevra, non appaiono in linea con gli standards attuali di tutela dei diritti dei belligeranti e dei civili. Sul punto, il debito contratto dallo Stato italiano di dar corso all’adeguamento della legislazione interna per conformarsi allo Statuto della Corte penale internazionale, approvato nel 1998 proprio a Roma ed entrato in vigore quattro anni più tardi, così ammodernando l’intero settore dei crimini di guerra e dei crimini contro l’umanità, rimane al momento una vaga promessa, che ha compiuto solo pochi timidi passi in sede parlamentare, malgrado la sua capitale rilevanza assiologia. Ci si potrà attendere che l’annunciata riforma dei codici militari, già varata dal Consiglio dei ministri nello scorso mese di luglio, mantenendo, contro il parere dei più, la distinzione tra legislazione di pace e di guerra – colmi tale lacuna dell’ordinamento italiano?
In compenso, memore di precedenti vicende che avevano riguardato l’intervento italiano in Somalia, il legislatore ha invece provveduto ad introdurre, ma solo nel 2002, il reato di tortura nel codice penale militare di guerra, che all’origine mancava nei codici militari e che tuttora è carente nella legislazione comune, come i recenti dibattiti parlamentari si sono premurati di ricordare. La nuova ipotesi di reato presenta tuttavia difficoltà applicative di tale portata e valenza punitiva così blanda, nonostante l’innalzamento della sanzione operato appena un mese dopo l’introduzione del reato, da apparire sostanzialmente inutile. Anche qui, non sarebbe auspicabile un ripensamento del legislatore, teso a sanzionare condotte di tal genere nelle forme adeguate imposte dall’ordinamento internazionale, dalla rilevanza degli interessi in gioco e dalla più elementare logica ?
Si innestano peraltro su tale questione le scandalose emergenze probatorie a carico delle forze armate occupanti per i maltrattamenti inflitti ai detenuti nelle carceri irakene poste sotto il controllo anglo-americano. Giuridicamente, occorrerebbe chiarire due diversi profili di immediata rilevanza penale per le forze armate italiane, vincolate ovviamente all’osservanza delle leggi penali e del diritto internazionale generale, che vietano trattamenti inumani e degradanti a qualsiasi soggetto privato della libertà personale. In astratto, andrebbe verificato quali siano gli obblighi assunti dal governo italiano circa le modalità di fermo e di consegna da parte dei Carabinieri operanti nella Multinational Specialized Unit alle autorità irakene o al Comando della Coalizione che esercita il controllo delle forze, rispettivamente di soggetti ritenuti responsabili di reati comuni o contro la Coalizione (Risposta Martino interrogazione Rizzo, 12.5.2004): gioverebbe all’uopo conoscere il contenuto del Memorandum di intesa stipulato con le forze britanniche, come già sollecitato in sede parlamentare (interrogazione Salvi, 18.5.2004), almeno nelle parti che non hanno immediate ricadute strategiche e che pertanto possono essere rivelate senza rischi per il personale operante all’estero, non potendosi ritenere sufficiente il richiamo all’art. 3 comune delle convenzioni di Ginevra (audizione Martino 18.5.2004). In concreto, ma questa è materia molto più spinosa sulla quale sarà eventualmente chiamata a pronunciarsi la magistratura, andrà accertato se vi sia stata una consapevolezza di eventuali abusi da altri perpetrati al momento della consegna ad opera del contingente italiano degli irakeni fermati.
Ulteriore limite, che rende complesso e di difficile comprensione il quadro giuridico applicabile alla missione, è il sottrarsi all’applicazione della giustizia penale militare di un nucleo assai cospicuo di condotte di cui si ravvisano gli estremi nel conflitto in atto. Ed infatti gli attacchi, anche quelli letali, ai danni dei militari del contingente italiano sono ricondotti nella giurisdizione del giudice ordinario di Roma, con una frantumazione di indagini, competenze e regole che rende ardua una lettura coerente del quadro giuridico d’insieme.
Lo scenario si riempie oggi di un ulteriore livello normativo, quello delle regole di ingaggio, a cui ci si è sistematicamente richiamati nei giorni addietro per il loro tipico contenuto di atti che disciplinano l’impiego della forza sul campo, che individuano la catena di comando, che definiscono alcuni poteri coattivi delle forze armate, trascurandosi tuttavia di considerare le immediate ripercussioni sul piano delle responsabilità che dalla loro violazione, ma soprattutto dalla loro osservanza, può eventualmente discendere. Anche qui gioverà sottolineare d’emblée che di tali RoE viene rivelata solo una modesta porzione contenente principi di ordine generale, mentre sono classificate, per ragioni di protezione delle forze in campo, le disposizioni di dettaglio attinenti alle modalità concrete di impiego della forza.
Nello specifico della situazione irakena pare comprendersi, dalle modeste notizie a disposizione, che le RoE siano state modellate sulla falsariga delle regole della Nato, di gran lunga le più elaborate e sperimentate in un contesto di intervento multinazionale, e esse che subiscono una applicazione parzialmente modulata sulle peculiarità delle singole forze operanti in campo, grazie alla possibilità di apporre riserve (caveat) da parte di ciascun Paese. Contrariamente a quanto si è affermato nel dibattito di questi giorni, non è pensabile un’applicazione indistinta e uniforme delle medesime regole per tutte le forze della Coalizione: forse utile in termini operativi, tale soluzione sarebbe destinata a scontrarsi con le radicali diversità di regime penale cui sono assoggettati i militari, alcuni dei quali (come i soldati nordamericani) sono – a tacer d’altro – notoriamente esclusi dalla giurisdizione della Corte penale internazionale ed agiscono pertanto al di fuori del preciso quadro di divieti e responsabilità che gravano invece sulle forze italiane.
Dal punto di vista formale, le RoE sono elaborate ed approvate dai comandi militari, ed hanno pertanto la natura di un ordine – talvolta sufficiente preciso da imporne l’osservanza immediata da parte del singolo, talaltra necessario di concretizzazione in funzione delle circostanze del caso e riempito quindi di contenuti ad opera della catena di comando (audizione Martino, 18.5.2004).
Il militare è tenuto ad osservare tali disposizioni, ma pur sempre nel rispetto delle regole sovraordinate: pertanto, e contrariamente a quanto si è udito in questi giorni, tali regole non consentono di derogare alle stringenti disposizioni di legge, specie a quelle penali, né alle norme di diritto internazionale umanitario, che sono espressamente richiamate e che comunque si applicano indipendentemente da un espresso rinvio. Le RoE pertanto non consentono di aggirare i limiti della legittima difesa, ma si limitano ad adeguarla alle esigenze peculiari del caso, concretizzando talune situazioni di pericolo in presenza delle quali una reazione è ammessa, ma pur sempre con i caratteri di attualità del pericolo dell’offesa e di necessità e proporzionalità della risposta. E’ quasi superfluo aggiungere che un ordine palesemente illegittimo sarebbe incapace di esimere il sottoposto da responsabilità e, viceversa, esporrebbe anche i superiori che lo avessero impartito a conseguenze penali.
Se questo è il quadro in cui operano le forze armate italiane, sembra giunto allora il momento di una definitiva puntualizzazione in sede politica dei profili di eventuale rilevanza penale sui quali ci siamo interrogati, puntualizzazione che deve passare attraverso una pubblicizzazione controllata di alcuni elementi normativi sinora vagamente richiamati nel dibattito, la definitiva chiarificazione dei rapporti tra gli imperativi di fonte interna e internazionale e – con maggiore problematicità – dei profili di interferenza con ordinamenti di altri Stati membri della Coalizione che non risultano astretti alle medesime regole di condotta, nonché mediante un accurato ripensamento in sede legislativa di aspetti irrisolti o inadeguatamente contemplati dal nostro diritto vigente. Ci sembra questa la stretta via da percorrere perché il diritto trovi il suo pieno riconoscimento, pur nella drammatica contingenza dell’intervento armato.