1. Premessa. La problematica individuazione delle competenze dell’Unione. – 2. La trasparenza delle competenze come criterio ordinatore. – 3. La competenza concorrente: sua natura giuridica. – 4. Il controllo politico sulle modalità di esercizio delle competenze: la procedura di allarme preventivo. – 5. Conclusioni.
1.Premessa. La problematica individuazione delle competenze dell’Unione. Anzitutto bisogna porre l’attenzione sul problema fondamentale costituito dal riconoscimento di nuove competenze all’Unione europea. Solo di recente infatti appare diminuito l’interesse e l’intensità degli studi sul tema costituito dalla cessione permanente di quote di sovranità da parte degli Stati in favore dell’Unione, pur in assenza di un atto formalmente fondativo della sovranità europea. I contributi in materia sono ovviamente innumerevoli1, ed esprimono, nel loro insieme, un disagio significativo riguardo alla questione centrale rappresentata dalla legittimazione dei poteri politici dell’Unione.
Le difficoltà ricostruttive sono il riflesso del processo di fusione degli ordinamenti nazionali con quello comunitario che presenta elementi originali e inediti nella storia del costituzionalismo. Esso è tale da imporre un atteggiamento incline alla ricerca di soluzioni estranee ai tradizionali percorsi di indagine, piuttosto che il mero esame dei problemi aperti, i quali, a dire il vero, difficilmente potranno essere condotti ad unità se non a condizione di abbandonare un metodo di ricerca rigorosamente fondato sulle consolidate elaborazioni proprie del diritto costituzionale. Aspetto quest’ultimo che naturalmente non significa un azzardato salto nel vuoto, ma una prudente ricerca di categorie appropriate ai dilemmi del nuovo diritto costituzionale europeo2.
Difatti il processo costituente comunitario, di allocazione di poteri dalla sede statale a quella europea, non può essere assimilato alle vicende costituite dal modello di formazione della Costituzione nord americana né alle esperienze continentali del dopoguerra: le premesse furono molto diverse e gli esiti che si produssero furono altrettanto differenti3.
D’altra parte anche i risultati dei processi costituenti di quelle epoche appaiono difficilmente comparabili con quello in corso in Europa, non fosse altro perché l’ordinamento comunitario mostra una naturale e incompiuta evoluzione degli assetti istituzionali, nel senso cioè che esso presenta una forza propulsiva non ancora esaurita: almeno fino a quando non sarà raggiunta una definitiva configurazione dei rapporti tra Stati e Unione europea soprattutto in ordine alle modalità di esercizio del potere pubblico europeo. Sicché gli sforzi ricostruttivi devono necessariamente essere condotti in chiave dinamica, tenendo conto appunto del fatto che gli scenari risultano spesso, naturalmente, mutevoli e incerti.
E’ infatti chiaro che “Al di là degli stati nazionali si è andata formando nel corso di tale processo di integrazione una struttura di potere più estesa, la quale, rispetto alle strutture tradizionali del potere negli stati nazionali, fornisce prestazioni categorialmente nuove e presenta caratteristiche originali”4. In altri termini la peculiarità del sistema europeo è che esso accantona l’indissolubilità propria degli ordinamenti interni costituita appunto dal legame tra “territorio dello stato nazionale e potere politico”5 con la conseguenza che si sono affermati un nucleo di principi relativi sia alla struttura sia all’organizzazione dell’ordine comunitario senza un circolare processo tipico delle organizzazioni statuali: popolo – legittimazione – sovranità. Ovvero appare sempre più evidente come l’Europa sia “immanente”6 allo Stato costituzionale e “nella sua essenza nessun potere costituente nazionale può oggi negare la dimensione europea della nazione”7, con la conseguenza che i singoli Stati membri dell’Unione “essendo parte di un’unione di costituzioni non sono più i signori delle proprie costituzioni. L’identità nazionale è definita oggi anche in termini europei”8.
La densità dei problemi insiti nella prospettiva richiamata è pari alla quadratura del cerchio: infatti se da un lato è innegabile che, anche in assenza di formali opzioni ascrivibili al piano della legalità costituzionale, si sia affermato un ordinamento avente natura costituzionale, è altrettanto corretto considerare che se si vuole condurre un’indagine propriamente giuridica il problema resta aperto9. Ovvero la realtà europea è il frutto di un atto di volontà dei singoli Stati, l’esercizio del potere politico comunitario non promana dal popolo europeo10, ma dalla mediazione dei singoli governi nazionali. Inoltre nell’attuale fase della integrazione, non può certo dirsi compiuta la formazione del popolo europeo11, con la conseguenza che anche e voler ripetere sul piano europeo schemi propri dello stato nazionale ci si troverebbe di fronte ad un ostacolo insormontabile. Anche perché la concreta distanza che esiste tra i popoli europei, basti considerare il problema della lingua, non pare rappresentare un incoraggiamento nella direzione considerata. Insomma il discorso può essere sintetizzato nel senso che fino a quando “non ci sarà un «popolo europeo» sufficientemente omogeneo da produrre una volontà democratica, non potrà neppure esserci una costituzione”12.
L’ordine delle considerazioni esposte tuttavia deve tenere in debito conto il fatto che ormai la lingua non rappresenta certo un impedimento insuperabile al confronto e alla comunicazione politica (è sufficiente rilevare come in alcuni paesi del Nord Europa l’inglese è paragonabile alla lingua madre), inoltre è fondamentale il rilievo per cui gli strumenti di diffusione di massa delle informazioni, con la loro capacità di intermediazione e scambio culturale, costituiscono una garanzia di formazione dell’opinione pubblica nazionale e europea.
Non può essere revocato in dubbio come attraverso il mezzo televisivo è certamente possibile un controllo da parte dei popoli nazionali sulle scelte condotte al livello comunitario: semmai il vero problema è quello di una maturazione degli operatori dell’informazione sulle questioni e sulle problematiche comunitarie. Con il che ovviamente non può dirsi concluso il problema: la “telecrazia”13 è densa di incognite, non fosse altro che per la possibilità di manipolazione delle notizie capaci appunto di intaccare la libera formazione del consenso.
Ancora l’inaugurazione del circuito democratico europeo se può essere favorito dalla comunicazione di massa non può certo esaurirsi con essa. Difatti è comunque necessario la partecipazione di tutti i componenti del sistema politico: partiti, sindacati, associazioni imprenditoriali, circoli culturali, enti di ricerca, movimenti spontanei. Ovvero è solo attraverso il reciproco scambio di idee tra gli attori del circuito politico rappresentativo che può in definitiva determinarsi una politica che trascenda i confini nazionali per saldarsi in una dimensione sovranazionale. Non appare questa una visione immaginaria viceversa “La percezione di una sovrapposizione transnazionale di interessi paralleli darebbe vita a un autentico sistema europeo dei partiti e a un insieme di reti che trascendono le frontiere”14 in funzione appunto di una coscienza politica comune e condivisa.
Difficile prevedere quale potrà essere l’approdo ma è certo che si assiste ad una imponente trasformazione dei più intimi assetti degli stati nazionali verso una federazione, intesa nel senso di un’unione di Stati non più autenticamente sovrani, il cui tratto distintivo va emergendo sempre più chiaramente nella direzione di uno spazio politico unitario. L’unità politica europea è forse la vera novità di un divenire giuridico che non ha esiti prevedibili ma punti di osservazione netti. In altri termini l’esperienza storica europea dimostra come gli Stati siano alle prese con problemi politici di comune significato e talvolta densità, quali ad esempio la crescente immigrazione, la globalizzazione economica e culturale15, la necessità di bilanci omogenei, oggetto di comune percezione tale da determinare “la consapevolezza di un’eredità normativa comune”16. Di cui la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, organicamente inserita nel Trattato, è forse il risultato più compiuto e avanzato sia sul piano propriamente politico sia su quello più apertamente culturale e giuridico.
E’ vero peraltro che la crisi irachena fa registrare atteggiamenti molto diversi dei governi nazionali17, divisi tra interventismo, non interventismo e posizioni più o meno ispirate al pacifismo. Tuttavia a ben considerare l’unità politica europea non sembra essere in discussione: anzitutto perché le decisioni dei governi non sono rappresentative di un sentire comune, ma semmai di una maggioranza, ma soprattutto perché, ad eccezione della Gran Bretagna che ha avuto un ruolo attivo nella guerra, l’opinione pubblica europea ha più volte e apertamente espresso un comune sentimento di avversione nei confronti dell’intervento militare: ciò che appare come il riflesso di principi condivisi e garantiti dalle costituzioni nazionali. Inoltre anche nei singoli Paesi membri si registrano orientamenti differenti e forti contrasti tra i partiti e la stessa opinione pubblica, che a ben riflettere non alterano l’unità politica nazionale: il cui denotato essenziale è la condivisione appunto di un nucleo di principi inviolabili propri dell’ordinamento costituzionale.
D’altra parte è ormai compiuta la formulazione di un catalogo di diritti fondamentali all’interno del quale è possibile riconoscere principi inviolabili aggiornati alle più complesse problematiche odierne: basti citare l’articolo II-63 del Trattato che adotta una costituzione per l’europa recante Diritto all’integrità della persona, che impone il divieto delle pratiche eugenetiche e ancora della clonazione riproduttiva degli esseri umani. Principi appunto che costituiscono il portato di una cultura giuridica e politica insieme condivisa, idonea a legare “normativamente tra loro gli europei”18, il cui valore vincolante non è pieno ma è certamente in grado di divenire tale così come è accaduto per altre formulazioni le quali hanno trovato applicazione nell’opera di costruzione dell’ordinamento comunitario svolta della Corte di giustizia.
2. La trasparenza delle competenze come criterio ordinatore. Le considerazioni che precedono risultano confermate dall’approvazione del Trattato che adotta una costituzione per l’europa. Infatti il punto che rileva maggiormente è la definitiva decisione di un salto di qualità: la formalizzazione della Costituzione europea. La riflessione certo va condotta in chiave dinamica o in progress: ma il risultato si è compiuto. Si tratta di una trasformazione cruciale, rispetto alla quale le indagini giuridiche possono cogliere aspetti importanti, ma non esaustivi: per intendere la complessità delle vicende odierne è dunque necessario anche l’apporto di altri campi dell’indagine in un processo circolare di speculazione che potrà consegnare un quadro sufficientemente chiaro, almeno nei suoi tratti essenziali.
La specificità del sistema delle competenze europee19, in via generale, è di tipo finalistico: nel senso che l’Unione e gli Stati membri sono titolari di attribuzioni in funzione del risultato comune da conseguire. Non è agevole individuare un catalogo di materie distribuite tra Unione e Stati membri per la ragione che “Quando i Trattati parlano di competenza lo fanno… in correlazione agli «obiettivi» o «scopi» dell’Unione”20. Difatti l’art.5 del TCE, più che far riferimento ad una tassativa elencazione di settori di intervento dell’Unione, introduce una clausola flessibile nel senso che la Comunità agisce sia in base alle competenze attribuite sia in relazione agli obiettivi assegnati21.
Tale situazione denota evidentemente che le competenze dell’Unione non risultano illimitate, come può accadere al contrario nel caso di una ricostruzione dei poteri impliciti intesa a fornire la base giuridica della competenza anche in assenza di una norma esplicita: traendo cioè implicitamente le attribuzioni dalla natura di alcune disposizioni22. Viceversa l’Unione agisce sulla base del cd. principio di legalità positiva23, nel senso appunto che i suoi poteri sono delimitati dalle disposizioni dei Trattati, e quando si richiama la dottrina dei poteri impliciti essa vale a configurare il potere dell’Unione di raggiungere un obiettivo specifico “senza andare al di là di quanto esplicitamente contenuto nella norma competenziale”24. Siffatta ricostruzione tende pertanto a definire un ambito più circoscritto dei poteri dell’Unione: esso si fonda su condizioni formali, procedurali e materiali25 al fine di garantire un esercizio legale delle attribuzioni, così che sia possibile riconoscere previamente l’esito e l’intensità dell’azione europea.
Naturalmente tale ipotesi ricostruttiva non sta a indicare che gli ambiti di intervento dell’azione statale e europea siano strettamente separati, come accade in sistemi tradizionalmente federali e segnatamente negli Stati Uniti d’America. Viceversa le competenze dell’Unione rispecchiano una modalità del loro esercizio che non può fare a meno della collaborazione degli Stati membri. Ovvero la peculiarità di tale regime configura una interconnessione tra i vari livelli di responsabilità politica. Difatti è noto che sia la fase ascendente sia la fase discendente del processo di produzione del diritto comunitario costituiscono il nucleo da cui promana la decisione europea. Con la conseguenza che l’esercizio delle competenze risulta fortemente condizionato dalla partecipazione dei governi sia centrali sia locali. Si delinea per questa via un “sistema cooperativo di separazione dei poteri”26, nel senso cioè che non è tanto l’allocazione dei poteri in sede europea, quanto le modalità del loro esercizio a costituire il vero piano dell’indagine sulle competenze comunitarie.
Certo è che quando si ragiona sulle concrete modalità di esercizio delle competenze i Trattati non offrono un quadro chiaro e compiuto27. Intanto vi è una confusione di termini che, seppure esprimono probabilmente la stessa sostanza normativa28, determinano tuttavia significative incertezze interpretative; ma più in generale si individuano differenti modalità di esercizio delle attribuzioni che non consentono l’individuazione di una categoria unitaria29: il che richiede a sua volta di precisare l’ambito di operatività dei principi sulle competenze contenuti nei Trattati30 stessi.
In altre parole è alquanto gravoso individuare ed enumerare le tipologie di competenze dell’Unione anche perché, come è evidente, tra gli stessi studiosi vi sono posizioni differenziate che riflettono più semplicemente la complessa architettura della forma di governo europea31. Alcuni autori parlano di una vera e propria giungla di competenze32. Tuttavia è possibile enumerare talune categorie sufficientemente consolidate: si distingue infatti tra competenze funzionali aventi portata intersettoriale, competenze funzionali in settori politici determinati e, infine, competenze nell’ambito di un settore senza natura funzionale33.
Difficile addentrarsi nella reale natura della tipologia di competenze richiamate, certo un tratto comune è il loro carattere incompiuto. Ovvero appare improbabile l’individuazione di elementi tipici tale da favorire una netta differenziazione delle competenze. Nondimeno questa situazione è più semplicemente la conseguenza di un processo di integrazione degli ordinamenti tipicamente a tappe34. Infatti le difficoltà interpretative scontano una iniziale e solo parziale scelta di trasferire in capo all’Unione poteri e competenze che gli Stati andavano cedendo con ovvie ritrosie. D’altra parte è noto che questo processo è tuttora in corso, e non è un caso che si vada affermando con un opera di costruzione giurisprudenziale dell’ordinamento, distante peraltro dalla previa determinazione di principi e regole attributivi di nuovi poteri all’Unione.
A questo punto è opportuno porre l’attenzione sulle novità introdotte dal Trattato che, in ordine al regime delle competenze, appare orientato dalla necessità di introdurre il principio della trasparenza come requisito fondamentale dei criteri che presiedono al corretto esercizio dei poteri comunitari. Difatti il suo Titolo III è interamente dedicato alla disciplina delle attribuzioni dell’Unione: se dunque una innovazione fondamentale può cogliersi, essa consiste proprio nella scelta di formulare in modo chiaro e compiuto la tipologia delle competenze dell’Unione. Certo nel suo insieme il Titolo III rappresenta una elencazione di regole ampiamente in uso in ambito comunitario: tuttavia la loro ordinata esplicitazione è sicuramente un passo in avanti nella direzione di un ordinamento propriamente politico costituzionale.
Tra i principi fondamentali relativi all’esercizio delle competenze (art.I-11) è agevole individuare la clausola residuale delle competenze in favore degli Stati membri. Infatti “in virtù del principio di attribuzione, l’Unione agisce nei limiti delle competenze che le sono conferite dagli Stati membri nella Costituzione…Qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nella Costituzione appartiene agli Stati”. Principio quest’ultimo che modifica l’art.5 TCE, rappresentando una garanzia di conservazione dei poteri in capo agli Stati: dunque la sua esplicitazione è utile ad una migliore diversificazione delle attribuzioni. Tuttavia giova ricordare come non sempre il concreto esercizio dei poteri comunitari è tale da assecondare una contrazione dell’azione comunitaria stessa: semmai è accaduto proprio l’opposto, e cioè una espansione dei campi di intervento dell’Unione anche in settori non esplicitamente assegnati alla competenza europea35. Ma come si diceva più sopra, si tratta di una modalità di esercizio dei poteri di tipo “dinamico-procedurale”36 che è tratto tipico del sistema di competenze europeo. Anche per questa ragione ulteriori indicazioni in ordine al principio di attribuzione forse andavano fornite. Difatti è convinzione diffusa che tale principio costituisce un fondamento generalizzato delle competenze europee ed è in grado di operare sia con riguardo a quelle verticali sia a quelle orizzontali: esprimendo un parametro di validità dell’azione comunitaria e più in particolare dell’intensità dell’azione stessa37. Cosicché esso richiede che tra i diversi strumenti di intervento propri dell’Unione “si opti per la misura meno intrusiva degli ordinamenti statali e delle autonomie dei singoli”38, in modo da assecondare una disciplina solo di principio e più in generale una armonizzazione dei settori a basso contenuto normativo.
Rinviando al paragrafo successivo l’esame del principio di sussidiarietà, in relazione si intende al tema della competenza concorrente, è utile sottolineare che la classificazione operata determina una soluzione mediata tra chi invocava l’introduzione di un catalogo di competenze, e chi al contrario era più favorevole al mantenimento di meccanismi che avessero natura flessibile. Difatti la determinazione delle competenze esclusive risponde alla prima tendenza, mentre la enumerazione di taluni settori di intervento, all’interno dei quali l’azione europea e quella nazionale è condivisa o concorrente, esprime la seconda impostazione.
Tra i principi fondamentali relativi alle modalità di esercizio delle competenze, e come tale valevole per le varie tipologie di attribuzioni, bisogna richiamare la clausola di flessibilità. Quest’ultima costituisce una soluzione normativa contenuta nell’art.I-18 del Trattato in base alla quale se l’intervento dell’Unione appare necessario al fine di raggiungere uno degli obiettivi propri della Costituzione, anche in assenza di una esplicita predisposizione di poteri di azione, è riconosciuta al Consiglio dei ministri, con deliberazione approvata all’unanimità su proposta della Commissione e previo parere del Parlamento europeo, la capacità di adottare le disposizioni adeguate. Si delinea per la verità un’ipotesi non sconosciuta all’ordinamento comunitario (art.308 TCE), e come appare evidente richiama il sistema dei poteri impliciti.
Sul punto vale evidenziare il fatto che tale meccanismo, esprimendo una deroga al principio di attribuzione, appare in grado di determinare prevedibili contenziosi tra Unione e Stati membri; benché vada riconosciuto come la tendenziale espansione delle competenze assegnate all’Unione rende meno necessario il ricorso a tale procedura39: riducendo pertanto le ipotesi di conflitti. Cosicché l’apparente contraddizione tra i due principi può essere interpretata nel senso di uno schema idoneo ad assecondare maggiore flessibilità nella ripartizione dei poteri, la quale a sua volta risulta in grado di favorire la dimensione propriamente politica dei rapporti tra Unione e Stati. In altre parole emerge un modello di distribuzione delle competenze ordinato secondo la collaborazione e l’integrazione degli ordinamenti nazionali con quello centrale comunitario, che si esprime anche e soprattutto mediante garanzie di tipo procedurale.
3. La competenza concorrente: sua natura giuridica. La riferita configurazione della distribuzione dei poteri europei e nazionali appare in modo chiaro quando si ponga l’attenzione sul principio di competenza concorrente.
L’art.I-12, comma 2°, del Trattato dispone che il potere concorrente opera nella direzione di attribuire all’Unione e agli Stati membri la facoltà di adottare atti giuridicamente obbligatori nelle materie elencate nel successivo art.I-14. La specificità di questa tipologia di competenza è nel senso di assegnare all’Unione la disciplina della materia e riconoscere agli Stati una capacità di normazione solo nella misura in cui “l’Unione non ha esercitato la propria o ha deciso di cessare di esercitarla”. Questo significa che, quando l’Unione interviene a disciplinare una materia, agli Stati è preclusa la possibilità di adottare atti di natura primaria, ad essi peraltro non è sottratto qualsiasi ambito di intervento anche perché bisogna considerare il tipo di provvedimento approvato in sede comunitaria: infatti a seconda che sia emanata la legge europea, la legge quadro europea, il regolamento europeo, la decisione europea, la raccomandazione o il parere, si aprono spazi di normazione in favore degli Stati più o meno ampi.
Difatti è decisiva la considerazione per cui in ragione del tipo di strumento normativo impiegato le relazioni tra i diversi livelli di disciplina risulteranno più o meno conformati. Sul punto forse andava precisato meglio l’ambito di intervento della relativa tipologia di atti: e cioè introdurre un parallelismo tra tipo di competenza e corrispondente strumento giuridico da utilizzare, in modo da assecondare il funzionamento di meccanismi, ma soprattutto il ricorso a forme di esercizio delle competenze, più aderenti a criteri consolidati di distribuzione dei poteri propri dell’ordinamento nazionale regionale o federale. Viceversa appare una fungibilità di atti e forme di esercizio delle competenze che certo non favorisce l’ordinata scansione delle decisioni politiche europee.
D’altra parte i richiamati strumenti di intervento appaiono come il riflesso della struttura organizzativa europea al cui interno non esiste un’Assemblea propriamente legislativa. Al contrario l’esecutivo svolge un’attività di indirizzo politico che potrebbe definirsi totalizzante: e cioè sia l’elaborazione sia l’adozione delle decisioni politiche europee si esauriscono quasi interamente nell’azione della Commissione e del Consiglio: il che per la verità non appare come un risultato avanzato in seno all’ordinamento europeo.
Ancora, a differenza della competenza esclusiva, nell’ipotesi in esame gli Stati non perdono definitivamente i loro poteri legislativi perché nel caso l’Unione cessi di esercitare la propria competenza questa risulterà naturalmente assegnata all’ordinamento nazionale.
Anche in questo caso bisogna considerare una certa rigidità nello schema richiamato. Infatti almeno fino a quando l’Unione non adotti un atto nelle medesime forme di quello precedente, la “cessazione” della competenza concorrente non si realizza: in altre parole l’atto giuridico europeo conserva la sua vigenza perlomeno fino a una nuova manifestazione di volontà da parte dell’Unione, vale a dire laddove interverrà una decisione equivalente e dotata di segno diverso. Sicché dovendo prendere tale decisone mediante procedimenti che si perfezionano, talvolta, anche attraverso la regola dell’unanimità, e comunque attraverso il ricorso a procedure macchinose, difficilmente si potrà rendere operativa la disposizione in esame.
Di modo che lo spazio di intervento che in via suppletiva è naturalmente assegnato all’ordinamento nazionale sarà inevitabilmente occupato dalla disciplina europea, che continuerà ad essere vigente “anche se, in tempi successivi, non si dovesse trovare sufficiente sostegno per la sua adozione”40. A meno che non si voglia riconoscere ai singoli ordinamenti il potere di intervento anche in assenza di un esplicito atto di dismissione delle competenza da parte dell’ordinamento europeo: ciò che per la verità, oltre a richiedere complesse ricostruzioni del sistema normativo, sembra contraddire la portata del principio in esame che come si è visto assegna in via ordinaria la competenza all’Unione.
D’altra parte l’articolo III-396 del Trattato, che disciplina il “procedimento legislativo” comunitario, fissa una serie di regole per l’adozione degli atti legislativi europei contrassegnate da un particolare irrigidimento delle forme. Esso, se da un lato esprime la garanzia di partecipazione del Parlamento al processo decisionale comunitario, introduce tuttavia un iter di formazione dell’atto che risulta quanto meno aggravato da una serie di passaggi in funzione di validità dell’intero procedimento. Certo qualora si riesca a raggiungere un accordo in prima lettura tra Consiglio e Parlamento l’atto è adottato. Tuttavia nel caso di conflitto tra i due Organi si aprono numerose ipotesi alternative.
Difatti se il Consiglio non approva la posizione espressa dall’Assemblea rappresentativa, adotterà una sua decisione e la trasmetterà al Parlamento. Nella successiva seconda lettura, che deve avvenire entro un termine di tre mesi dalla comunicazione dell’avvenuta nuova decisione, si potranno determinare diversi esiti: il Parlamento approva o non si pronuncia, in questa ipotesi l’atto si considera adottato; viceversa il Parlamento respinge la posizione del Consiglio a maggioranza dei componenti, in tal caso l’atto si considera non adottato.
Ancora qualora vi sia la proposizione di emendamenti da parte del Parlamento, l’atto è comunicato al Consiglio e alla Commissione per il parere. Se nei successivi tre mesi il Consiglio approva tutti gli emendamenti l’atto si considera adottato. Viceversa se tutti gli emendamenti non risultano approvati il presidente del Consiglio dei ministri convocherà nelle sei settimane successive il Comitato di conciliazione con il compito di arrivare ad un accordo su un progetto comune. Allorché il Comitato non riesca a trovare un via di uscita entro sei settimane, l’atto proposto non sarà adottato. Tuttavia il Comitato può anche giungere alla formulazione di un progetto comune che dovrà essere adottato dal Consiglio con la “maggioranza qualificata” (e cioè la maggioranza assoluta dei componenti il collegio) e dal Parlamento con la maggioranza semplice: solo a condizione dunque che siano state espresse le medesime volontà il progetto elaborato in sede di conciliazione risulterà adottato.
Le alternative richiamate vanno esaminate attentamente. Infatti bisogna considerare la partecipazione parlamentare, di natura propriamente vincolante, alla decisione politica comunitaria come un’evoluzione significativa della forma di governo europea: si tratta di una decisiva variazione del modello sino ad oggi in vigore che conferisce una natura più marcatamente democratica al sistema di esercizio del potere pubblico europeo. Tuttavia nella direzione indicata più sopra bisogna anche riconoscere che difficilmente con le procedure richiamate gli Stati potranno aspirare a entrare in possesso delle competenze concorrenti.
D’altra parte è altrettanto evidente che in questo caso le relazioni tra ordinamenti operano propriamente in direzione unitaria: è chiaro infatti che, comunque si voglia ricostruire la natura del potere concorrente, qualora l’Unione sia intervenuta a disciplinare un settore gli Stati membri non potranno far altro che applicare tale normativa.
Ulteriore problema è costituito dal rapporto che si instaura tra il principio di sussidiarietà e la competenza concorrente.
Infatti fino ad oggi tale clausola fondamentale ha operato nei rapporti tra Stati e Unione al fine di contenere l’esercizio dei poteri europei: ovvero solo in presenza di particolari presupposti, e cioè se l’azione della Comunità in ragione della sua dimensione risulti più efficace di quella statale e se i suoi obiettivi non possono essere adeguatamente realizzati a livello statale, l’Unione può intervenire con una disciplina che esclude quella nazionale. Con il che però gli Stati non perdono la titolarità dei poteri in ordine ad una determinata competenza.
Nondimeno il Trattato nel disciplinare la competenza concorrente determina taluni settori di intervento i quali in via ordinaria sono assegnati all’Unione: il che sembrerebbe escludere qualsiasi ipotesi di ricorso alla sussidiarietà in chiave di garanzia dei poteri statali. Difatti la enumerazione delle materie depone per una ricostruzione che riconosce comunque all’Unione la titolarità del settore. Pertanto può forse considerarsi che solo nel caso in cui l’Unione non abbia esercitato la competenza o abbia cessato di esercitarla la sussidiarietà operi come garanzia residuale in favore degli Stati i quali riacquistano l’esercizio della competenza nel settore di materia considerato.
In altri termini l’inserimento del principio di sussidiarietà tra quelli fondamentali con particolare riferimento alle modalità di esercizio delle competenze, sembra introdurre qualche elemento contraddittorio. Infatti se si considera che è riconosciuta all’Unione l’attribuzione di un catalogo di materie, come espressamente dispone l’art.I-14 del Trattato, quest’ultima è in ogni caso legittimata ad operare, anche in assenza dei presupposti di efficacia e adeguatezza richiesti al fine di fornire una base giuridica all’atto in questione: la conseguenza dunque è che difficilmente il principio di sussidiarietà troverà applicazione: come d’altra parte è accaduto sino ad oggi, almeno in sede giurisdizionale.
Tuttavia è altrettanto corretto considerare che così come in base all’art.I-11 del Trattato la delimitazione delle competenze è fondata sul principio di attribuzione, così il loro esercizio è fondato sui principi di sussidiarietà e proporzionalità: pertanto non può essere revocato in dubbio che tali principi troveranno applicazione pure nell’ipotesi dei poteri concorrenti, anche perché non si vede per quale ragione si debba riconoscere una preferenza per l’ordinamento europeo nel caso in cui il suo intervento non sia giustificato e fondato sui presupposti richiesti dalla sussidiarietà.
D’altra parte la competenza concorrente appare ordinata sul modello tedesco41, nel senso appunto della konkurrierende Gesetzgebung la quale opera nella direzione di riconoscere al legislatore centrale il potere di modulare, nella misura che ritenga opportuna, l’intensità dell’intervento legislativo in modo da “articolare variamente il proprio rapporto con i legislatori locali, permettendogli, non solo di indirizzarne, ma anche di espropriarne la competenza, occupando ambiti a questa altrimenti riservati”42. E’ noto peraltro che questa tipologia di competenza nell’ordinamento tedesco può essere esercitata sulla base dei presupposti stabiliti dall’art.72 della Legge Fondamentale43: criteri peraltro rinvenibili solo in parte nella codificazione comunitaria. Il che induce a considerare come nell’ipotesi europea, l’esercizio di questa attribuzione debba trovare il proprio fondamento nei principi di sussidiarietà e proporzionalità come appunto dispone l’art.I-11 del Trattato, il quale a sua volta rinvia al paragrafo 3 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità circa le modalità operative di tali principi.
E’ utile evidenziare come l’esame del Trattato consegna una disciplina sufficientemente articolata in ordine appunto alle modalità operative dei richiamati principi, la cui caratteristica principale è quella di richiedere alle Istituzioni dell’Unione la motivazione dettagliata delle decisioni che impattano sugli ordinamenti nazionali. Difatti in base al paragrafo 4 del Trattato ogni proposta legislativa va accompagnata da una scheda “contenente elementi circostanziati che consentano di valutare il rispetto dei principi di sussidiarietà e proporzionalità”. A tal fine poi bisognerà giustificare attraverso indicazioni di natura sia qualitativa sia quantitativa “Le ragioni che hanno portato a concludere che un obiettivo dell’Unione può essere conseguito meglio a livello di quest’ultima”. In altre parole appare evidente come la procedura richiamata rappresenti il presupposto di una eventuale azione giurisdizionale, che sia appunto originata dall’uso distorto dei poteri europei, i quali non risultino confortati nella loro dimensione e intensità da elementi concreti che ne giustifichino l’esercizio.
Di modo che il Giudice di costituzionalità potrà condurre il suo sindacato sulla base di parametri stringenti ovvero aderenti al contesto e alla dimensione normativa dei principi enunciati nel Trattato: mettendo in campo una operazione di logica giuridica che richiama propriamente un test o uno scrutinio di coerenza dell’azione intrapresa dall’Unione.
D’altra parte l’ordine delle competenze e più in generale il modello che emerge, appare profondamente innovato proprio con riferimento alle garanzie di tipo giurisdizionale, non perché siano state riconosciute nuove attribuzioni al Giudice comunitario, ma all’opposto perché esse subiranno un prevedibile e sensibile ridimensionamento. Nel senso ovvero che non viene certo meno la garanzia giurisdizionale in sé, tuttavia il ricorso a tale sfera e cioè la richiesta di intervento del Giudice diminuirà proprio perché vi sarà la possibilità di comporre in sede politica eventuali e altrettanto prevedibili conflitti in ordine alle modalità di esercizio delle competenze: il che appare nel suo complesso come un risultato avanzato raggiunto dal Trattato.
Tanto più se si considera il fatto che nello stesso articolo I-14, comma 3° e 4°, è introdotta una variante alla tipologia generale della competenza concorrente che proprio per il suo carattere atipico potrà recare qualche elemento di ambiguità. Difatti nei settori della ricerca, dello sviluppo tecnologico e dello spazio, della cooperazione allo sviluppo e dell’aiuto umanitario, l’esercizio della competenza da parte dell’Unione non impedisce agli Stati di disporre della loro44. Il che equivale a dire che in tali settori sussiste una tensione permanente tra i diversi livelli di normazione, la quale potrà essere contenuta sia mediante l’applicazione del principio di prevalenza del diritto europeo su quello nazionale, ma soprattutto attraverso le garanzie procedurali appena richiamate.
4. Il controllo politico sulle modalità di esercizio delle competenze: la procedura di allarme preventivo. Appare utile evidenziare il significativo salto di qualità compiuto con il ricorso a strumenti che certamente potranno determinare difficoltà di ordine operativo nella loro applicazione concreta, ma che hanno l’innegabile pregio di assecondare un confronto tra i Parlamenti dei paesi membri e l’Unione in ordine all’esercizio delle competenze europee.
La procedura disciplinata dal paragrafo 5 del Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità dispone che su ogni progetto di atto legislativo dell’Unione, trasmesso a cura della Commissione ai singoli Paesi membri, i Parlamenti nazionali o ciascuna Camera possono esprimere un parere motivato in ordine alla corretta applicazione del principio di sussidiarietà. Ancora ove tali pareri rappresentino un terzo dei voti dei Parlamenti nazionali e delle Camere la Commissione è tenuta a riesaminare la proposta. Tuttavia terminato l’esame del parere da parte della Commissione essa può decidere di confermare, emendare o ritirare il suo progetto di atto.
Il controllo preventivo di legittimità sulla corretta applicazione del principio di sussidiarietà introduce pertanto una fase ulteriore, si direbbe endoprocedimentale, nel più complesso iter di formazione degli atti comunitari. Si tratta più precisamente di un diretto coinvolgimento delle Assemblee rappresentative nazionali nel processo decisionale comunitario, le quali potranno far valere la dimensione tipicamente politica del principio in esame. D’altra parte la sede più idonea capace di giudicare l’esatto impatto di un atto giuridico europeo sugli ordinamenti nazionali non può che avere natura politica, pertanto il cd. allarme preventivo altro non è che un ulteriore tassello di quel mosaico collaborativo che come si è detto sembra prendere corpo nel Trattato.
Tuttavia come è stato evidenziato qualche elemento di ambiguità permane45: l’allarme preventivo risulta associato all’eventuale ricorso alla Corte di Giustizia per violazione appunto del principio di sussidiarietà. Infatti ciascun Parlamento, Camera o Comitato delle regioni sono legittimati ad adire il Giudice comunitario al fine di denunciare il vizio dell’atto comunitario per contrasto con il principio richiamato.
Anzitutto vi è il rischio di uso pretestuoso di tale potere: come nel caso di un ricorso alla Corte che sia originato da conflitti interni ai singoli Paesi; o ancora l’ipotesi di un ricorso suggerito dal Governo nazionale: il quale mentre in sede comunitaria può avere espresso parere favorevole al medesimo atto viceversa in sede nazionale induce il Parlamento all’impugnativa46. Inoltre bisogna anche dire che il riconoscimento di tale potere spinge verso la giurisdizionalizzazione dei rapporti tra Parlamenti e Unione che per la verità appare fortemente in contraddizione con la filosofia collaborativa che ispira il modello delle relazioni tra i diversi livelli ordinamentali quale risulta dal Trattato.
Cosicché ai Parlamenti è riconosciuto un vero e proprio ruolo di controllo sia preventivo sia successivo sulla corretta applicazione della sussidiarietà. Nondimeno l’esito della procedura descritta non è detto conduca ad una decisone gradita ai Parlamenti stessi, e dunque all’adozione di un atto da parte della Commissione dotato di segno diverso. Viceversa motivando nel merito essa può anche decidere di mantenere la proposta iniziale o di modificarla anche solo parzialmente: nel qual caso le Assemblee o si allineano alla volontà della Commissione, accettando le modifiche o anche l’originario progetto, oppure non potranno far altro che adire la Corte di giustizia. Pertanto con l’intento di riequilibrare i rapporti tra i due Organi, e cioè al fine di non vanificare le istanze provenienti dalle sedi nazionali, si è significativamente riconosciuto un potere di ricorso in capo all’Assemblea rappresentativa.
Probabilmente però una soluzione di tipo propriamente conciliativo era preferibile, e avrebbe scongiurato il coinvolgimento del Giudice comunitario in conflitti fondati su elementi di natura soprattutto politici e come tali con poca probabilità di essere giustiziati. Difatti è ormai chiaro che il principio di sussidiarietà, sebbene sia stato imbrigliato in procedure scandite e contenuti più stringenti, esprime naturalmente una alta densità discrezionale: difficilmente penetrabile da un sindacato avente consistenza giurisdizionale. Si vuol dire cioè che la scelta di ricorrere all’adozione di un atto da parte dell’Unione, ora che peraltro le competenze risultano enumerate secondo una elencazione per materia, si esaurisce in una valutazione tipicamente di opportunità la quale, seppure incanalata nelle procedure richiamate, non sfugge alla logica che la ispira: ovvero il suo presupposto si fonda sulla opzione discrezionale, intesa ad esprimere a sua volta uno dei connotati della forma di esercizio del potere pubblico europeo.
Certo il diretto coinvolgimento dei parlamenti nazionali nei meccanismi decisionali europei47 è fatto degno di nota, e costituisce evidentemente il contrappeso della nuova configurazione delle competenze europee; nel senso appunto che a maggiori poteri europei corrisponde un maggior controllo operato in sede nazionale: come se la cessione ulteriore di sovranità che si va realizzando a favore dell’Unione sia recuperata da strumenti atti a garantire le ragioni dello Stato nazionale. Insomma i Paesi membri e più in particolare i loro Parlamenti, risultano rassicurati dalla possibilità di utilizzare strumenti in grado di riportare nella sede nazionale poteri che diversamente risultavano irrimediabilmente perduti.
Ovviamente non è detto che per una eterogenesi dei fini questo risultato possa realizzarsi, anche perché, come si diceva più sopra, la sussidiarietà è formula politica e come tale ha correttamente indotto posizioni ispirate ad un self restraint del Giudice comunitario il quale, per la verità, ha il più delle volte interpretato le clausole richiamate in senso favorevole al mantenimento dell’atto giuridico europeo: è noto infatti che il principio di sussidiarietà non ha mai fondato una decisione di accoglimento della Corte di giustizia48. Il che porta a considerare come tale garanzia non opera o almeno non ha fin qui operato in favore della conservazione della sovranità statale: semmai proprio il suo contrario.
Conclusioni. Anche per le ragioni esposte è decisivo il ricorso a procedure che ad un tempo siano in grado di garantire e realizzare la sintesi degli interessi nazionali e europei all’interno di un circuito che consolidi il livello delle relazioni politiche tra i soggetti coinvolti nel processo decisionale europeo. Non appare secondaria l’inaugurazione di nuovi strumenti atti a tutelare le istanze e le rivendicazioni che dovessero provenire dal corpo sociale dei singoli paesi dell’Unione, rispetto alle quali il coinvolgimento diretto delle Assemblee rappresentative nazionali non può che operare in favore di una maggiore coesione politica.
D’altra parte il segno proprio delle materie di competenza europea è la loro duttilità: non solo con riguardo al modo in cui esse hanno fin qui operato, ma soprattutto nella configurazione quale si evidenzia nel Trattato ove si è segnalato come permanga una qualificazione delle competenze di natura funzionale49: ovvero l’intervento dell’Unione è reso necessario in ragione dell’obiettivo da realizzare. Appare dunque probabile l’interferenza tra i diversi livelli di decisione la quale, se da un lato è necessaria soprattutto nella fase esecutiva dell’atto europeo, è tuttavia in grado di esprimere una tensione permanente tra l’Unione e gli ordinamenti dei singoli Stati membri.
Nondimeno proprio attraverso la competenza concorrente, così come si configura sia nel Trattato sia nel Protocollo sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, si assiste ad un trasferimento di poteri dagli Stati all’Unione che nelle garanzie di tipo procedurale trova la sua più spiccata caratteristica. In altre parole l’esercizio di tale tipo di competenza è circondato da un insieme di meccanismi che realizzano un equilibrato rapporto tra le diverse sedi coinvolte nella decisione. Pertanto più che interrogarsi sulla natura ovvero sui limiti della competenza concorrente, bisogna porre l’attenzione sulle modalità di ordine procedurale che ne caratterizzano il suo esercizio, assecondando una dinamica tipicamente politica.
Anche per queste ragioni sembra necessario completare l’architettura costituzionale europea, attraverso l’individuazione di un organismo che possa rappresentare il luogo dove accogliere le istanze provenienti dalle sedi nazionali, le quali non dovessero essere accolte dalla Commissione e dunque vanificate. Certo il ricorso al Giudice comunitario è sempre possibile, ma non è detto possa costituire una soluzione efficace del problema. E’ chiaro peraltro come al momento la modifica del Trattato rappresenta una strada poco praticabile, tuttavia può forse considerarsi l’ipotesi di estendere le competenze del Comitato di conciliazione (art.III-396, par.10, 11, 12) anche ai conflitti tra Commissione e singoli Parlamenti nazionali.
Le ragioni che militano a favore di questa tesi appaiono molteplici50. Anzitutto si favorisce un ravvicinamento tra i Parlamenti e la Commissione in relazione al conflitto sul singolo atto, ma soprattutto si può favorire il risultato di una decisione condivisa tra i vari contendenti la quale, evidentemente, può per tale via essere formulata sulla base di posizioni comuni raggiunte all’interno del Comitato. Inoltre in questo modo si realizza il coinvolgimento del Parlamento europeo in un processo circolare che può appunto mettere in contatto le diverse sedi della rappresentanza politica con evidenti conseguenze sul piano della legittimazione della decisione politica europea.
D’altra parte nella fase attuale del processo costituente europeo sembra più corretto interrogarsi sulle modalità di esercizio dei poteri, piuttosto che sulla delimitazione delle sfere di competenza le quali, a dirla tutta, appaiono nella quasi totalità cedute definitivamente all’ordinamento politico costituzionale comunitario. Cosicché il dato davvero rilevante è costituito non tanto da ciò che resta agli Stati e da ciò che è trasferito all’Unione, ma dal fatto che nella Costituzione europea siano presenti strumenti in grado in ultima istanza di favorire un processo condiviso e come tale democratico di formazione della volontà comunitaria.
Certo questo non significa che si debba necessariamente produrre una decisione che sia il risultato di posizioni uniformi: al contrario proprio la possibilità di esprimere posizioni differenziate che rimangano tali anche in seguito alla procedura conciliativa, è garanzia di un corretto svolgimento della dinamica politica la quale non può sicuramente essere contenuta o peggio irrigidita all’interno di circuiti forzatamente unitari. In altre parole bisogna comunque garantire la possibilità che anche in seguito all’esperimento della procedura conciliativa l’atto oggetto del conflitto decada come conseguenza di un mancato accordo: indipendentemente dall’eventuale decisone della Corte di giustizia adottata sulla base dell’altrettanto eventuale ricorso proposto da uno dei soggetti abilitati.
Cosicché se da un lato si registra uno schema tradizionale di ripartizione delle competenze, in chiave appunto di chiara delimitazione dei poteri europei e corretto esercizio degli stessi, dall’altro si introducono delle rilevanti innovazioni rispetto alle quali solo l’esperienza concreta potrà dare indicazioni utili in ordine al loro reale modo di operare. Certo molto dipenderà anche dai singoli parlamenti nazionali e dal modo in cui riterranno di organizzare le “sessioni” europee: pertanto anche i comportamenti nazionali e l’idoneo esercizio delle richiamate garanzie procedurali potranno contribuire a rendere più o meno snello l’iter di formazione della volontà europea.