Dai lanci di agenzia (adnkronos, 13.59 del 12 aprile; ANSA, 14.09 e 15.27 del 12 aprile 2003) e dalle pagine di alcuni quotidiani (La Repubblica, Il Tempo, l’Unità del 13 aprile) si apprende che, intervenendo a margine di un Convegno organizzato a Torino dalla Confindustria, il Presidente del Consiglio pro tempore Silvio Berlusconi ha manifestato il proprio punto di vista circa il valore della Costituzione fondando, però, il proprio giudizio su considerazioni di carattere storico e giuridico non corrispondenti alla effettiva sostanza delle cose. Partendo da una valutazione di carattere, per così dire, politico circa il ruolo della “pazienza quale unico potere” reale del Presidente del Consiglio sono tre gli elementi della dottrina costituzionale del Presidente che riteniamo di dover ricordare. Il tenore delle dichiarazioni di Berlusconi, la cui sostanza viene riportata dalle fonti citate in una univoca versione letterale pressoché identica, è il seguente:
“Mi sono più volte lamentato del fatto che la nostra stessa Costituzione dia all’impresa pochissimo spazio, circondandola di vincoli; basti guardare la formulazione dell’art. 41, che v’invito a rileggere, e che risente delle implicazioni sovietiche che fanno riferimento proprio alla cultura e alla Costituzione sovietica, da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione”.
Quindi, a proposito dei vincoli ai poteri del Presidente del Consiglio, che appunto avrebbe “solo il potere della pazienza”: “prendete ad esempio il decreto-legge, che prima deve essere controfirmato dal Presidente della Repubblica, poi arriva alla Camera e deve passare al vaglio della Commissione Affari costituzionali e della commissione di merito; e se poi il Parlamento non le converte in legge, è finito tutto lì, perché non può essere reiterato”.
E ancora, sul valore e sul ruolo del Parlamento, la tesi della presunzione di consenso dei componenti delle istituzioni rappresentative ai contenuti delle proposte del governo: “Ho visto che c’è stato scandalo per i cosiddetti pianisti. Non c’è nulla di scandaloso. Per quanto riguarda l’aula, il singolo gruppo vota per il numero dei componenti del suo gruppo. Se qualcuno è in disaccordo, deve essere presente, per dare il suo voto contrario”.
La esposizione di tale dottrina costituzionale si conclude, quindi, con la proposta programmatica: “La prossima volta le difficoltà si possono superare se darete a Silvio Berlusconi e a Forza Italia il 51 % dei consensi”.
In questa sede vorremmo soltanto esprimere, in ossequio al nostro attuale sistema costituzionale, alcune note di commento a questa “teoria costituzionale”, mentre ogni riflessione circa le sue implicazioni storico-politiche ci sembra superflua.
1) L’art. 41, come tutto il testo della Costituzione del 1948, è il frutto del compromesso delle culture cattolica, marxiana e liberale, compresenti in Assemblea costituente e intenzionate a condividere il valore dei principi espressi nella Carta fondamentale allo scopo di fondare una comunità unita e solidale a fronte delle sempre presenti tentazioni totalitarie ed integraliste proprie dei pensieri forti. Alla stesura della disposizione concorsero, ad esempio, esponenti della cultura liberale del livello di Einaudi, Bozzi e Corbino (c’era pure Benedetto Croce) della cui ispirazione sovietica è quanto meno lecito dubitare. Quanto ai contenuti della disciplina, l’iniziativa economia privata viene configurata dall’art. 41 come diritto di libertà, massimo riconoscimento al valore della persona ed ai principi della democrazia liberale. In Assemblea costituente fu presente, infatti, l’idea di configurare tale diritto come strutturato in funzione dell’interesse generale, così indirizzando l’iniziativa dei privati a fini altri rispetto a quelli propri dei titolari, ma prevalse la tesi, positivizzata dall’art. 41, di non accettare la natura funzionale del diritto di libertà ma di prevedere invece i “fini generali” e la “utilità sociale” soltanto come limiti esterni allo stesso. Come a dire che la libertà economica non è affatto condizionata dalla necessità di perseguire fini di interesse generale, ma appunto “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale”, può cioè essere oggetto di limiti che il legislatore ritenesse di definire allo scopo di evitare la compromissione dei valori che la rappresentanza politica, il Parlamento, qualificassero come afferenti all’interesse generale della collettività. A meno di non ritenere di ispirazione sovietica i limiti della sicurezza, della libertà (quindi anche della libertà economica degli altri, in funzione cioè antimonopolista) e della dignità umana, espressamente richiamati dal secondo comma dell’art. 41 quali limiti alla iniziativa economica privata!
2) Il valore della Costituzione, anzi, proprio il carattere liberale delle dottrine del costituzionalismo, fonda sulla preminenza del ruolo delle procedure legali la forma più corretta di esercizio del potere pubblico per fare sì che l’arbitrio, tipicamente presente nella matrice materiale del potere, si riduca a funzione e si esprima “nelle forme e nei limiti della Costituzione”, come prevede l’art. 1 della nostra Carta addirittura con riferimento alla sovranità popolare. Fu proprio Kelsen, giurista liberale, ad insistere sul ruolo della discussione e del negoziato quali mezzi per comporre consensualmente il dissenso delle parti chiamate a concorrere alla determinazione della politica nazionale, e in questo ritenne di leggere “l’essenza ed il valore della democrazia”. E’ vero, governare è difficile. E’ difficile e faticoso quando si abbia la pretesa di imporre le proprie opinioni mediante il mezzo della discussione pubblica e del consenso, convincendo gli altri della bontà e della efficacia delle soluzioni che si propongono, componendo in un dibattito irreggimentato dalle procedure e dai tempi della discussione parlamentare gli interessi che, fatalmente in una società complessa quale quella attuale, finiscono con il trovarsi in conflitto.
Questi, crediamo, possano essere in sintesi il valore ed il senso dei vincoli che le regole costituzionali costruiscono al fine di tradurre in forme democratiche l’esercizio del potere politico, a meno di non voler accedere alla tesi professata dal Presidente del Consiglio della “più efficiente” dottrina della dittatura della maggioranza, se non di ispirazione sovietica di sicura matrice giacobina.
Un’ultima notazione. La cultura democratica di un Paese è sempre funzione del valore dei suoi principi di cui si rendano interpreti le istituzioni e, per esse, gli uomini che le incarnano in quel momento. La forza evocativa di una cultura si esprime soltanto se di essa si professino interpreti viventi i soggetti chiamati a rappresentare pubblicamente il valore delle istituzioni politiche, per la particolare pervasività della loro influenza sulla formazione della pubblica opinione. Le dichiarazioni svilenti il significato ed il valore della costituzione e delle sue regole, i comportamenti in spregio della veridicità del voto parlamentare, le offese alla cultura democratica in quanto tale se manifestate quali dottrina di politica costituzionale da parte del Presidente del Consiglio in carica, con l’aggravante dell’uso dei mezzi di comunicazione di massa, hanno il sicuro effetto di compromettere il senso di appartenenza e di condivisione dei cittadini per i valori dell’ordinamento democratico. Soprattutto se pronunciati da parte di chi ha assunto la propria funzione condizionato dal giuramento di “essere fedele alla Costituzione ed alle leggi della Repubblica”.