1) La mia generazione ha avuto la fortuna di potersi confrontare direttamente con i “vecchi” dell’antifascismo (nel mio caso, Bobbio, Capitini, Rossi-Doria, Levi, Ada Gobetti, Bilenchi e tanti altri, compreso lo stesso Parri) ma forse ha imparato molto di più dall’incontro con la generazione a quella successiva, che ha potuto considerare come quella dei fratelli maggiori e non dei padri. È da loro che ha appreso di più, per un rapporto diretto o indiretto con scelte condivisibili, nel contesto dell’Italia degli anni del dopoguerra. È peraltro la generazione che ha dato alla società italiana quell’impronta di vitalità e di intelligenza che, nelle scelte e nelle vocazioni individuali, non si è mai estraniata dalla cosa pubblica, che nel mentre perseguiva le sue scelte e teneva fede a vocazioni personali di artista o di studioso, non ha mai trascurato di riflettere sulla “cosa pubblica”, e di prendere posizione, nei migliori con una forte autonomia di giudizio. È questa generazione che ha dato alla storia della cultura italiana la sua vivacità, imprimendo il suo segno agli anni del dopoguerra fino agli anni Settanta e ancora agli Ottanta, quando ha cominciato a morire, in un’Italia che andava mutando radicalmente. Penso a Calvino, a Pasolini, a Fortini, a Sciascia, a Bianciardi, a Fellini, a Dolci e a tanti altri, con i quali si è potuto ragionare – nel mio caso, direttamente con molti di loro e attraverso la lettura di libri e articoli con altri – cosa era stata la loro esperienza del fascismo, che segno aveva lasciato nella loro vita e nella loro faticata conquista di un pensiero non condizionato. Io credo che si capisce il fascismo se ci si mette dal punto di vista di coloro che sono nati e cresciuti sotto il fascismo, che non hanno avuto esperienza del prima e che non hanno avuto la libertà, la possibilità di confrontarsi con l’esperienza internazionale, con forme di società non autoritarie e totalitarie.