1) Lo stato dell’arte
L’idea che provvedimenti giurisdizionali possano essere sindacabili (e nel merito e nella legittimità) attraverso vie che non siano quelle endoprocessuali risulta estranea all’ordinamento giuridico italiano1 . L’acqua calda, si dirà, è già stata scoperta; soffiano, tuttavia, venti pregni di disegni legislativi che non esiteremmo a definire, prima facie, imperscrutabili, se non risultassero, invece, ad una lettura appena più smaliziata, smaccatamente eversivi rispetto a principi e criteri generali che informano il sistema giuridico. La contraddizione tra questi ultimi e talune disposizioni del disegno di legge-delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (n. 1296) risulta, al tempo stesso, così evidente e così assurda da spingere l’incredulo interprete (prima a stropicciarsi gli occhi, poi) a ripassare velocemente princìpi, norme di legge e criteri generali.
Conviene, innanzitutto, confrontare i dati normativi -vigenti e in discussione al Parlamento-, per poi commentarli alla luce di principi generali e orientamenti giurisprudenziali.
Il dato normativo di riferimento in tema di responsabilità disciplinare del magistrato ci insegna, come è noto, che per incorrere in tale tipo di responsabilità un magistrato deve mancare “ai suoi doveri o tenere in ufficio, o fuori, una condotta che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario” (art. 18 r. d. lgs. n.511/1946).
L’art. 7, punto 9, del disegno di legge-delega citato qualifica come illecito disciplinare “l’attività di interpretazione di norme di diritto che palesemente e inequivocabilmente sia contro la lettera e la volontà della legge o abbia contenuto creativo”.
Quanto all’art. 18 del regio decreto del 1946, tutti conosciamo i problemi interpretativi cui ha dato luogo, data l’estrema genericità della disposizione, così come ricordiamo sia il disaccordo del giudice costituzionale rispetto all’idea che l’illecito disciplinare possa considerarsi tipizzabile2 , sia l’istanza, da più parti avanzata3 , di disciplinare in maniera (almeno tendenzialmente) precipua i singoli comportamenti suscettibili di generare responsabilità disciplinare.
E alla tipizzazione dell’illecito disciplinare il d.d.l. in questione è giunto: l’articolo 7, già citato, (intitolato “Norme in materia disciplinare nonché in tema di situazioni di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento d’ufficio”) prevede in effetti un dettagliato elenco di illeciti disciplinari, corredato di relative sanzioni.
Ora, senza volere entrare nel merito di tale scelta (su cui si potrebbe comunque discutere), vorremmo invece concentrare l’attenzione unicamente sull’art. 7 punto 9, sottolineando, dapprima, ciò che si commenta, in realtà, da sé: al giudice viene sottratto il compito più connaturato alla sua funzione, l’interpretazione della legge. Davvero ogni rilievo critico appare superfluo. Giusto uno, terra terra, senza pretese, che suona più come una battuta, uno sberleffo: senza interpretare l’art. 18 (in cui “la lettera e la volontà” del legislatore” –per esprimerci secondo il d.d.l. in parola- suonano talmente vaghe!) come si sarebbe regolato il giudice naturalmente preposto all’applicazione di questa disposizione, vale a dire la sezione disciplinare del Consiglio superiore della Magistratura?
Dopo la lettura della disposizione immediatamente successiva, il lettore -sempre più incredulo- non può che chiosare: al danno segue la beffa. L’art. 7, punto 10, del d.d.l. dispone infatti che “fermo quanto previsto dai numeri 3) e 9), non può dar luogo a responsabilità disciplinare l’attività di valutazione del fatto e delle prove”.
Il fatto è che i punti 3 e 9 contemplano fattispecie numericamente estesissime di comportamenti che il d.d.l. qualifica come illeciti disciplinari e che l’ordinamento processuale considera invece, di volta in volta, come elementi valutabili ai fini dell’impugnazione dei provvedimenti giurisdizionali.
Il punto 3 (dell’art. 7) qualifica infatti come illecito disciplinare (tra l’altro) “… l’emissione di provvedimenti (….) la cui motivazione consiste nella sola affermazione della sussistenza dei presupposti di legge senza indicazione degli elementi di fatto dai quali tale sussistenza risulti, quando la motivazione è richiesta dalla legge…ecc.” 4 E, ancora, “il perseguimento di fini diversi da quelli di giustizia”… Bella disposizione, ad effetto, se non fosse che occorre, anche in tal caso, quel ferro vecchio detto “interpretazione” per capire quali sono i fini che la legge considera, di volta in volta, coerenti con la giustizia e quali potrebbero essere, invece, “fini diversi da quelli di giustizia”, perseguiti da un magistrato.
Considerando allora il punto 3) e, d’altro canto, lo spettro potenzialmente illimitato di ipotesi in cui il giudice “crea” o ricrea la norma di diritto (ipotesi che rientrerebbero, pertanto, nell’ambito del punto 9 art. 7 e dunque sarebbero sottoponibili a giudizio disciplinare), non può che giungersi alla conclusione che -parafrasando il testo del summenzionato art. 7, punto 10- “fuori di quanto previsto dal 3 e 9 … resta ben poco, pressoché ogni attività di valutazione del fatto, della legittimità e delle prove potendo dar luogo a responsabilità disciplinare”.
Attraverso il combinato disposto dei punti 3, 9 e 10 dell’art. 7, l’attività di interpretazione del fatto e del diritto finirebbe per essere affidata ad un giudice che non è più quello naturale (giudice di primo grado, appello, Cassazione), bensì quello disciplinare, con buona pace del sistema processuale (civile e penale). Gli art. 9 e 10 contrastano quindi non solo con regole-cardine dei codici di procedura, ma anche con l’art. 25 Cost.
E’, in definitiva, il caso di dire che uno spettro (molto antico e un po’ malconcio, vista l’età) si aggira in Italia e si chiama réferé legislatif 5, creatura cara al furore giacobino che sottrasse ai giudici, all’indomani della Rivoluzione, la loro funzione naturale, ossia l’interpretazione della legge, assieme all’obbligo di rivolgersi ad un organo politico di derivazione parlamentare (Tribunal de cassation 6) in caso di dubbio sull’interpretazione della legge. L’idea era che usurpasse poteri legislativi colui che pretendesse di interpretarla, “distinguendovi dei significati. Lo rileva Robespierre (seduta 10 novembre 1790) e, otto giorni dopo, disquisisce sulla “jurisprudence des tribunaux”: formula nefasta, da abolire, perché evoca degli interpreti; bisogna che le decisioni non siano ‘autre chose que la loi ”7 .
E’ appena il caso di ricordare (ma vogliamo farlo, in ogni caso, vista l’assurdità del progetto in parola) che i tempi sono cambiati, che anche gli studenti del primo anno di giurisprudenza hanno dimestichezza con la distinzione tra disposizione e norma e che “l’aspirazione a rendere effettiva la supremazia della legge (intesa come volontà politico-normativa del legislatore) a fronte (dei pericoli) dell’interpretazione è ben espressa dall’istituto dell’interpretazione autentica” 8.
2) Il passo successivo
Poi c’è quel di cui il disegno di legge tace: posto il divieto di sentenze “creative”, l’interprete (che si è oramai assuefatto allo sbigottimento e inizia a divertirsi) non può fare a meno di chiedersi cosa succederebbe se il giudice, “intestardendosi” a interpretare la legge, fallisse nel suo compito. Chi, innanzitutto, diverrebbe giudice del suo errore 9?
Che tra le funzioni della sezione disciplinare del Csm possa contemplarsi un sindacato siffatto, è ipotesi da escludersi, dal momento che la sezione disciplinare “è giudice dei comportamenti e non dei provvedimenti (e quindi) la correttezza o meno delle decisioni giurisdizionali sul piano della legittimità e del merito non può costituire oggetto di cognizione e valutazione da parte della Sezione Disciplinare, a meno che non si ravvisi nel provvedimento stesso una negligenza inescusabile ovvero una grave e macroscopica violazione di legge oppure l’intento di arrecare danno o procurare vantaggi ad altri”10.
La sezione disciplinare, si è visto, non poteva essere più chiara di così, o di come chiara è stata nel sottolineare che l’attività intellettiva del magistrato (tra cui rientra, ci sembra, il sacrosanto dovere di interpretare la legge e di redigere una sentenza che ogni volta rischia di essere un po’ creativa) non rientra nel suo sindacato11 .
Il silenzio del d.d.l. sul punto spinge a concludere nel senso che la sezione disciplinare continui ad essere il giudice dell’illecito disciplinare. Ma -lo si è appena detto- è un fatto notorio il modo in cui la sezione disciplinare ha circoscritto –a ragione, del resto- il suo sindacato ai soli comportamenti del giudice, non già ai provvedimenti sotto il profilo della legittimità e/o del merito. Di ciò il Governo avrà certo tenuto conto. Qualcosa non quadra, dice a se stesso l’interprete. Si prevede un tale stravolgimento dei principi generali dell’ordinamento processuale e non lo si correda di un istituto volto a tradurlo in pratica?
Non resta, allora, che pensare ad un organo altro da quello di autogoverno, altro dalla sezione disciplinare come attualmente strutturata…Affiora allora un ricordo, lontano ma non troppo, datato novembre 1998.
La memoria corre a quel progetto di “Corte di giustizia della magistratura”, nato nel contesto della Bicamerale D’Alema, segnatamente nella versione (che non fu accolta nel progetto definitivo di revisione costituzionale) che prevedeva una maggioranza di membri laici rispetto a quelli togati.
Si ricorderà come la Corte di giustizia della magistratura si caratterizzava per una netta separazione (sia strutturale che funzionale) rispetto agli organi di autogoverno della magistratura (ordinaria e amministrativa). L’idea-guida che portò alla previsione di tale nuovo organismo fu di “depurare” la funzione disciplinare dagli eccessi di corporativismo, di cui la sezione disciplinare spesso era stata accusata, suscettibili di tradursi in difetto di imparzialità di giudizio. Prevedendo, infatti, che “i componenti della Corte non partecipano alle attività dei rispettivi Consigli di provenienza e durano in carica sino alla scadenza di questi” (art. 122, c. 5, del progetto finale), si connotava la funzione della Corte di Giustizia in quanto volta esclusivamente al giudizio disciplinare, così sancendo una netta diversificazione rispetto alle funzioni amministrative, che restavano affidate ai Consigli superiori12 . Anche se si volesse prescindere dalle proposte volte a rendere la Corte di Giustizia praticamente del tutto autonoma dal potere giudiziario (come quella su citata, con maggioranza di membri laici rispetto a quelli togati13 ), e quindi volte a sganciare in via definitiva la funzione disciplinare dalla magistratura per affidarla, di fatto, al potere esecutivo, resta il fatto che, pur nella versione finale, la separazione strutturale14 fu congegnata in modo tale da sortire lo stesso effetto: la composizione della Corte di giustizia era apparsa, infatti, “eccessivamente sbilanciata a favore della rappresentanza della magistratura amministrativa la cui consistenza numerica, di poche centinaia di magistrati, è proporzionalmente inferiore a quella della magistratura ordinaria, formata da circa novemila unità”15 . Poiché solo quattro dei nove membri che avrebbero composto la Corte sarebbero stati magistrati ordinari, il risultato mirava, evidentemente a sovrarappresentare la magistratura amministrativa “per tradizione, cultura e modalità di reclutamento più vicina e sensibile alle istanze del potere politico”16 . Una Corte disciplinare, così congegnata, non avrebbe avuto più molto in comune con il concetto di “autogoverno” della magistratura: la “presenza minoritaria dei magistrati ordinari (che soltanto se sommati a quelli amministrativi potranno numericamente prevalere sui membri laici)” era stata quindi, a ragione, letta come un chiaro sintomo della diffidenza gravante attorno al concetto stesso di autogoverno della magistratura 17.
In definitiva, strutturata come appariva nel progetto finale, la Corte di giustizia avrebbe potuto fatalmente trasformarsi in una sorta di versione stemperata del Tribunal de Cassation giacobino. Ora, non ci sembra affatto peregrina l’ipotesi di un repêchage -in un futuro prossimo- dell’ipotesi “Corte di Giustizia della magistratura”, magari nella variante della prevalenza di membri laici…
Un’ipotesi del genere si ricollegherebbe senza soluzione di continuità logica al divieto di sentenze creative, ponendo, per così dire, la ciliegina sulla torta: a questo punto, infatti, il cerchio (divieto sentenze creative → responsabilità (sedicente disciplinare, in realtà surrettiziamente politica) del magistrato che incorra in un’interpretazione erronea → sindacato sull’eventuale violazione spettante a un organo di derivazione -in parte o tout court– politica, e comunque non di autogoverno)- si chiuderebbe, con esiti fatali per quel valore fondamentale dell’ordinamento costituzionale italiano che è l’indipendenza della magistratura (tutta) e del singolo magistrato.
L’ordinamento giudiziario, così trasformato, sarebbe un monstrum giuridico, poiché contemplerebbe al suo interno una serie di regole e istituti compatibili solo con un sistema giudiziario elettivo (quale quello, ad esempio, proprio degli Stati Uniti d’America), in cui il magistrato è, proprio in quanto eletto, responsabile anche politicamente.
Ancora una volta è dunque necessario ricordare con forza che “per la stessa soluzione data al problema dell’inquadramento e del reclutamento dei magistrati, manca nel nostro ordinamento qualsiasi cenno ad un’eventuale loro responsabilità politica, in ipotesi azionabile nella forma della decadenza dell’ufficio ad iniziativa di organi rappresentativi o (di sezioni) del corpo elettorale”18 .
Forse ha errato, l’intrepido interprete, a immaginare che il seguito naturale delle disposizioni del d.d.l. prese in esame non possa che essere una Corte di Giustizia della magistratura, o qualche creatura simile. Forse è un arrogante e basta, come varrebbe a dimostrare la citazione introduttiva, in cui si è scomodato il principe Amleto, vantando simili qualità profetiche. Se è così, facciamo ammenda. Resta però il fatto che, di fronte a progetti simili, uno si sente impotente e il pensiero si fa confuso, irto di dubbi, proprio come successe al danese.
C’è solo da augurarsi che l’immaginazione abbia corso troppo e che la realtà, per una volta, non superi la fantasia.