Lessi, ora è tanti anni, che ‘nella «democrazia politica» ogni uomo «vale come sovrano»’1). Lessi poi che ‘nella democrazia la costituzione, la legge, lo stato stesso sono soltanto un’autodeterminazione del popolo e un contenuto particolare di esso’2). Lessi inoltre che ‘nella democrazia lo stato astratto ha cessato di essere il momento dominante’3). Lessi pure che lo ‘stato rappresentativo democratico (demokratischer Repräsentativstaat) è ‘lo stato moderno compiuto’ . Quest’ultima affermazione connette democrazia e rappresentanza. Le connette nello stato moderno definendolo come democratico, in quanto e per quanto rappresentativo, e rappresentativo, per quanto ed in quanto possa essere democratico.
Se ne potrebbe trarre la conseguenza che lo stato moderno, nel compiersi, accomuna democrazia e rappresentanza. Le identifica? È da accertare.
Quel che si può già dedurre è che la democrazia della modernità, è la democrazia rappresentativa. Appare certo, intanto, che la questione della democrazia è, in realtà, quella stessa del suo essere rappresentativa, come forma e come intensità. È quindi quella della rappresentanza la questione prioritaria da affrontare per trattare il tema della democrazia. Ed è quanto dire che la democrazia è la rappresentanza.
Soltanto? Senza carenze, senza eccedenze? Il compito dettato dal titolo è questo.
Devo premettere una avvertenza. Chi ha prestato qualche attenzione ai miei scritti avrà già constatato che essi sono come … ‘viziati’ da quel certo storicismo che induce a partire dalle origini degli oggetti della scienza giuridica, ricercandole. Sono Topoi da rivisitare per scoprire poi le modulazioni, le impronte, le conversioni che le varie fasi del processo storico hanno impresso agli istituti giuridici per consegnarceli nella forma che ne definiscono la contemporaneità. Non nascondo questo vizio e non ho remore nel continuare a praticarlo.
Non sorprenderà quindi che, dovendo trattare della rappresentanza, inizi col riflettere sul primo degli atti che viene a compiersi spontaneamente appena emerge un dato dell’esperienza giuridica, quello di nominarlo. E il nome della cosa è la cosa, la descrive, la identifica, ne scopre l’essenza. Infatti, il nome della rappresentanza è quanto mai rivelatore della essenza della rappresentanza. Far sì che sia presente in qualche sede quel che presente non vi è, e non può esservi o non si vuole che vi sia o non deve, è una res, il nome latino di una cosa.5) Una cosa, quindi, non una persona, ma un’entità non singola. Potrà, di certo, questa cosa essere anche un’entità composta da persone, ma, appunto, alla condizione che sia multipla questa entità, che si tratti cioè di una pluralità di persone. Si può quindi pensare ad un’orda, a una tribù, a una gens, a un gruppo di insediamenti umani, o ad uno o a più ceti, a una o a più frazioni, componenti, classi di una data società umana.
So bene, e non v’è chi non sappia, quanto sia robusto, pregnante, preminente, ricco per gli usi prestati, descrizioni operate, dottrine dedicate, l’istituto della rappresentanza di diritto privato. So, come tutti sanno, quanto sia invadente e prepotente, questo istituto, al punto da pretendere di disporre esso solo della giuridicità. E non è difficile, d’altronde, constatare che molti giuspubblicisti siano stati ben disposti a secondare questa pretesa, subendo senza resistere l’egemonia del diritto privato, rivelando in tal modo quanto sia imponente la dominanza dell’ideologia della proprietà privata, che di quel massiccio ramo nel diritto è fondamento e compimento. Si è affermata così la credenza che quella di diritto privato sia la rappresentanza per eccellenza, il modello, l’esemplare primigenio.
Ben altro dimostra invece il nome della rappresentanza. Rivela che essa nasce da una entità plurale, laddove quella di diritto privato implica un rapporto i cui termini non possono che essere i singoli. All’origine, quindi, la rappresentanza non può essere stata altra che quella di diritto pubblico, quella di diritto privato ne sarà derivata, ne è quindi solo un’applicazione in munere alieno.
Cosa può comportare che, nell’ambito del diritto pubblico, l’entità da rendere presente in una sede ove non lo è e non può o non vuole essere, è un’entità plurale? A quale condizione è possibile concepire una raffigurazione di un’entità plurale in una sede diversa da quella propria, reale, naturale? È del tutto evidente e non metterebbe conto neanche accennarvi se non per limpidezza espositiva, che si è nel campo dell’artificiale, quale è quello proprio delle costruzioni giuridiche. Ebbene, l’artificio di rendere presente quel che non lo è, impone, per essere strutturalmente credibile e funzionalmente efficace, che la raffigurazione dell’assente che incombe sia almeno corrispondente nella forma a quel che presente non è, alla composizione propria e tipica, essenziale, elementare dell’entità da rendere presente. Un’entità non riducibile ad una mera somma di individui della specie umana, composta com’è da donne e da uomini immersi in una miriade di rapporti sociali ed economici, dai quali traggono culture e ideali, ragioni di adesioni o di rifiuto, determinando la molteplicità dei conflitti che identificano l’intera realtà sociale rappresentabile solo al plurale, non altrimenti. Perché plurale è l’entità da rappresentare, plurale deve essere allora la sua raffigurazione, il modo, la sede, la forma della sua rappresentazione.
Storia, semantica, dommatica si congiungono nel dover essere della figura che rappresenta perché possa riflettere l’essere dell’entità rappresentata.
A confermare le deduzioni testé ricavate, soccorre quel fattore che realizza l’integrazione dell’elemento personale nella configurazione normativa dell’istituzione rappresentativa, cioè il processo di produzione della rappresentanza. L’immissione dei titolari nell’entità, istituzione, organo, cui potrà spettare la qualifica di rappresentante avviene con atto di volontà dei singoli componenti dell’entità da rappresentare. Un atto di volontà da compiere dai partecipi della pluralità che è però atto singolo, sia esso il voto o anche quel gesto, che riproducendosi in una serie contestuale realizza l’acclamazione, atto o gesto che resta singolo anche se plurale. È l’ordinamento, infatti, non una qualità dell’atto, che offre la possibilità ai singoli atti di congiungersi in modo da poter produrre, tutti insieme, l’effetto della provvista del personale necessario perché venga formata l’istituzione, l’organo, l’entità artificiosamente inventata per rappresentare. C’è allora da domandarsi: la serie degli atti singoli, una volta posti in essere, fino a che punto può essere ridotta, compressa, selezionata senza perdere la sua idoneità a riflettere, su scala ovviamente minore, ristretta, l’originaria pluralità delle singole manifestazioni di volontà dei componenti della entità da rappresentare? Certo, molto drastica può essere la riduzione, molto severa la selezione, molto intensa la compressione, mai però tale da negare la struttura basilare dell’entità da rappresentare che è e resta plurale.
Si badi: l’atto voto è ad esercizio plurimo, come plurima è la sua titolarità, ma plurima è anche la sua specificità funzionale6). Il voto, anzi, i voti, possono benissimo essere prefigurati come idonei a preporre un titolare di organo. Per preporre, cioè, ad una carica pubblica o privata Tizio o Caio, il Presidente degli Stati Uniti, il Papa, il presidente di un’associazione di bocciofili, ma non tutti i voti sono volti a produrre rappresentanza, ad eleggere rappresentanti. Il Presidente degli Stati Uniti è eletto dai cittadini statunitensi che si iscrivono nelle liste per l’elezione presidenziale, ma non è il rappresentante del popolo degli Stati Uniti. Questo termine non appare né nella seconda né in altra sezione dell’articolo II della Costituzione degli Stati Uniti, dedicato proprio al Presidente. È molto rigoroso il linguaggio di quel ‘primate’ delle Costituzioni scritte. Il termine ‘rappresentante’ è usato solo per indicare i membri della Camera denominata con i nomi dei suoi membri. Il che consentirebbe, al limite, che si possa anche supporre che detta qualificazione potrebbe non spettare al Senato, pur composto da eletti da cittadini dei singoli stati, in quanto il titolo che legittima tali eletti sarebbe quello del rapporto che li lega agli stati membri e non alla generalità dei cittadini degli Stati Uniti. Solo questa grande entità plurale potrebbe essere considerata capace di essere rappresentata, sia perché lo sarebbe direttamente, sia, soprattutto, perché eleggerebbe una proiezione adeguatamente plurima di se stessa, e non una delegazione che con due soli membri per ogni stato, si porrebbe come poco riflessiva della pluralità degli elettori degli stessi stati. Può sembrare eccessiva siffatta deduzione e probabilmente lo è, ma quell’antico e ancora vigente testo parrebbe volerla suggerire.
Ma sono molti gli esempi, come ben si sa, che possono essere addotti per indicare voti e procedimenti elettorali che non producono rappresentanza. Anche il Papa è eletto ma l’elezione non gli conferisce una qualche titolarità rappresentativa in senso proprio, né del collegio cardinalizio che lo elegge, né dell’universo ecclesiale, visto che, per definizione dottrinale e canonica, è considerato come rappresentante sì, ma di Cristo in terra. Neanche altri voti pur se volti alla copertura di cariche pubbliche possono essere considerati come idonei ad instaurare un rapporto rappresentativo. Non credo che possano tuttora essere definiti come rappresentanti in senso tecnico i titolari di cariche al vertice della istituzioni territoriali italiane, sindaci, presidenti delle Province e Presidenti delle regioni, visto che sono eletti a suffragio diretto. Così come evidentemente non possono essere considerate come rappresentanti delle belle donne d’Italia le elette nei concorsi di bellezza comunali, provinciali, regionali e nazionale, e non credo che se ne adontino le varie miss Caserta, Campania, Italia.
Descritta la conformazione del rapporto rappresentativo come volto a riprodurre una corrispondenza prioritaria tra struttura della realtà da rappresentare e forma della sua proiezione istituzionale, il ruolo, la funzione, la ragione d’essere della rappresentanza sollecitano la loro individuazione, la loro determinazione, la loro spiegazione. Le domande cui rispondere sono allora quelle che concernono la ricerca dell’esigenza originaria che determinò la nascita dell’istituto e la descrizione della complessiva evoluzione che ha portato la rappresentanza a collocarsi come necessità, come forma della democrazia e come carattere qualificante dello stato moderno. Solo il ricorso alla storia può aiutarci a non lasciare inevase domande di tanta insistenza e di tale complessità.
Giovanni Senzaterra, era figlio di Enrico II, ma figlio cadetto. Successe a Riccardo Cuor di leone, ma nel trono, non nei domini feudali. Perdette le terre di Francia che la dinastia normanna aveva unito al regno d’Inghilterra, ma il soprannome ‘senza terra’ lo aveva acquisito prima: era il maggiorascato che lo aveva reso tale.
Restio ad accettare la supremazia della Chiesa, che nel Concilio Lateranense, era stata proclamata monarchia universale da Innocenzo III, fin quando temette di essere spodestato da Filippo di Francia che il papa aveva nominato al suo posto dopo averlo deposto e sottopostosi alla Chiesa sebbene mal volentieri, si era distinto per:
l’arbitrio con cui elevava lo scutaggio di anno in anno e riscuoteva i sussidi che imponeva senza rispetto per le antiche norme che li potevano autorizzare e legalizzare, e con lo stesso arbitrio i suoi ufficiali riscuotevano le imposte secondo un sistema esasperato di amerciaments e fines che aveva raggiunto l’apice della fiscalità;
la pratica con cui esercitava la funzione di tutore degli orfani ammassandone le ricchezze ma trasferendole nel proprio patrimonio;
la pretesa di amori non esattamente spontanei e non esclusivamente spirituali da parte delle mogli e delle figlie dei grandi vassalli.
Non erano poche le ragioni di insofferenza per tanto malgoverno. Esse si addensavano nel mentre si determinava una significativa trasformazione della base sociale del Regno dovuta ad una estesa diffusione della ricchezza derivante dai traffici commerciali conseguenti alle crociate che modificava la cultura della stesse classi nobiliari. Si aggiunse infine l’effetto della avvenuta integrazione dei normanni con gli anglosassoni e di tutte e due etnie con i britanni. Fu in questo clima che, su ispirazione dell’arcivescovo Laughton, i signori feudali, ecclesiastici e laici, si organizzarono e prepararono una nuova redazione della Charta che già Enrico I aveva promesso ed annunciato. E così a Pasqua del 1215 duemila cavalieri si fecero sciogliere dal giuramento al re dai canonici di Durham e dal 15 al 19 giugno sui prati di Runnimede imposero a Giovanni Senza terra la Magna Charta che imponeva forti limiti legali alla prerogativa regia nelle materie di amministrazione della giustizia, di poteri di polizia e di potestà tributaria.
I costituzionalisti liberali hanno esaltato soprattutto l’articolo XXXIX della Charta, quello che proclama: ‘nessun uomo libero può essere preso o imprigionato, o spogliato della proprietà, o bandito, o esiliato, o in qualunque modo distrutto, né noi vogliamo sottoporlo a giudizio, né esercitare su di lui una coercizione giudiziaria, se non per mezzo di un giudizio dei suoi pari e secondo il diritto del Paese’. Ma è sulla questione del potere che la Magna Charta preannuncia, dico ‘preannuncia’, non dico istituisce, un governo rappresentativo, creando i presupposti primigeni di un governo parlamentare. Che non instaura affatto, intendiamoci, ma, e non sappiamo quanto consapevolmente da chi la impose, pur consente di poter prefigurare come esito di un processo storico appena avviato. E fu lungo, questo processo, molto lungo ed anche tortuoso e contraddittorio. Gli articoli XII e XIV stabilivano, infatti, che ‘escluse le somme fisse prestabilite in caso di alienazione di feudi (100 scellini se fondo equestre, 100 lire d’argento in caso di feudo di conte, 100 marchi in caso di feudo di gran barone) se si richiedono sussidi in danaro (auxilia) oltre i tre casi stabiliti dalla consuetudine (riscatto del re dalla cattività, di investitura di cavaliere del figlio primogenito, e del matrimonio della figlia primogenita) ed oltre il caso di scutaggio, le richieste di danaro avrebbero dovuto essere approvate in assemblea alla quale dovevano essere invitati nominativamente i majores baroni e i minores per mezzo degli sceriffi.7)
Comincia così, su tale base normativa, la storia del parlamentarismo inglese. Non ancora quella della rappresentanza appunto perché al Consiglio del regno, cui la Charta attribuiva la potestà di imposizione finanziaria (art. XII) e al Gran Consiglio, cui demandava la determinazione dell’ammontare del diritto di scutaggio (art. XIV), erano chiamati personalmente i barones o nominativamente o a mezzo degli sceriffi. Non se ne deve trarre però la deduzione che la rappresentanza non fosse comparsa all’orizzonte della storia. Rimonta, infatti, al 1188 la prima convocazione dei rappresentanti dei comuni alle Cortes di Lèon per contrattare gli aiuti finanziari richiesti dal Re in cambio dell’accoglimento di petizioni delle quali il re doveva dichiarare, prima che si deliberasse sull’entità delle contribuzioni, l’accoglimento o la reiezione.8) Ma non si consolidò, in Spagna, il regime rappresentativo. Ed in Inghilterra non ebbero possibilità di svilupparsi i germi della Magna Charta, subito rinnegata da Giovanni Senzaterra che ottenne di essere sciolto dal giuramento dallo stesso Innocenzo III e perseguitò i baroni che lo avevano costretto ad emanarla. 9) Si sa che alle rimostranze del Consiglio del Regno per aver omesso di scegliere il Gran giustiziere, il Lord Cancelliere, e il Tesoriere, impedendo che potessero agire di concerto, rispose nel 1246 che egli non era un servo del Consiglio e non si sarebbe mai piegato ai baroni del Parlamento in materia di nomina o di revoca dei suoi funzionari.10) Si sa pure che la pretesa del Parlamento di dare lezioni al re per la scelta dei suoi ministri fu oggetto di un poema del 1258.11)
Ma è di enorme importanza per il nostro tema, sapere che qualche anno prima, nel 1254, veniva convocato il Gran Consiglio del Regno a Westminster al quale ciascun sceriffo avrebbe inviato due cavalieri che dovevano essere eletti dall’assemblea della contea in rappresentanza di tutti e di ciascuno, per decidere insieme ai rappresentanti delle altre contee, collettivamente, quale aiuto finanziario avrebbero potuto concedere al re.12) È così che, infrangendo vincoli territoriali e di ceto, distinzioni consolidate, obblighi particolari, l’universo dei sottoposti al potere impositivo regio si pose come termine di un rapporto rappresentativo per la trattativa tributaria col titolare di tale potere, il monarca. Emergevano in tal modo due figure soggettive, quella che conteneva tutti i sottoposti al potere che avessero capacità contributiva e quella che li raccoglieva, ne era una derivata che aggregava l’insieme dei sottoposti, ponendosi e denominandosi come rappresentanti. Si legittimava, questa figura, in quanto termine di un rapporto sicuramente politico, perché politica era la funzione di trattare con la corona, politico era il legame che intercorreva tra rappresentati e rappresentanti, politico era poi l’effetto della trattativa, quello di rendere concreta, determinata, specificata l’obbligazione tributaria. Va anche sottolineato che il carattere politico dell’effetto politico era materialmente fondato, come solo poteva essere quello attinente al trasferimento di ricchezza privata alla corona, al titolare supremo del potere statale. Di ‘spirituale’, di ‘ideale’ a la Leibholz, la rappresentanza non aveva nulla, almeno all’origine, ma io credo che non ne abbia mai avuto. Importante, del pari, è l’estensione della base da rappresentare che si ebbe col Parlamento di Simone di Monfort nel 1265 cui parteciparono non soltanto i pari, prelati e cavalieri ma anche due rappresentanti per ogni borgo. Estensione che si consolidò con Edoardo I, che usò la convocazione dei comuni prima per rafforzarsi nei confronti dei baroni, poi per aver compreso che l’aumento del numero dei contribuenti incrementava le entrate e ne rendeva più agevole l’esazione perché concordata con la piccola nobiltà e con i borghesi, infine perché con l’emersione politica di questi ceti, si incrinava il sistema feudale a vantaggio del potere regio.13)
Ma fu con i primi tre re dall’identico nome di Eduardo che successero sul trono d’Inghilterra che vennero a maturazione le condizioni storiche necessarie perché si instaurasse, con l’indipendenza nazionale definitivamente acquisita dagli inglesi, almeno nelle sue linee fondamentali, la forma di governo rappresentativo. Fu nel secolo che va dal 1272 al 1377, per iniziativa della monarchia che ‘per la prima volta apparve distintamente quella Costituzione, che da quel tempo, a traverso di tutte le variazioni, ha sempre conservato la sua identità…Allora la Camera dei comuni, l’archetipo di tutte le assemblee rappresentative che oggi si radunano, così nell’antico come nel nuovo mondo, tenne le sue prime sessioni..’.14) Fu lento il processo storico istituzionale che avrebbe portato a compimento la forma di governo rappresentativo. La trasformazione del Continual Council attraverso il periodico invito dei baroni e dei prelati in Magnum Consilium non fu realizzata in un giorno, né fu subitanea la elevazione delle Communitates al governo del Regno mediante la loro proiezione nella House of Commons. Ma quel che interessa soprattutto far notare è il progressivo incremento del potere complessivo di questa istituzione nella misura pari a quella della sua partecipazione alle decisioni tributarie e di bilancio.15)
Sono note le forme istituzionali che consentirono alla rappresentanza prima di influire sul potere regio e poi di svuotarlo. Sono le forme denominate in modo da collocare il titolare del potere regio in due istituzioni collegiali: King in Parliament, King in Council. Delle due la seconda, che è probabilmente più antica, ma non tanto perché funzionale all’altra o ad essa comunque connessa, spiega il farsi ed il compiersi di un duplice procedimento giuridico, di immunizzazione e di espropriazione, rectius: di espropriazione, previa immunizzazione. E rivela, la formula King in Council, l’arcano del principio King can do no wrong. Se il re non può far male e perciò non può rispondere degli atti di governo, di questi risponderanno altri: i membri del Council privato prima, e del Cabinet poi. La formula quindi immunizza il monarca trasferendo la responsabilità degli atti formalmente a lui intestati al Council, o a qualcuno dei membri di questo, il che comporta, ovviamente, lo spostamento del potere di compierli a chi, membro del Council o intero Council, è tenuto a risponderne, visto che in diritto costituzionale, così come in ogni ramo del diritto, essere responsabile significa avere potere ed esercitarlo. Di quale potere si tratti è del tutto evidente. Si tratta del potere esecutivo, per una ragione espressa dall’altra formula.
King in Parliament, per il tramite dei ministri ordinariamente o anche personalmente, è formula che rivela una coeva e ancora più significativa forma di espropriazione. Quella del potere legislativo. Il processo storico che portò a questa espropriazione parallela se non anche coeva è noto. Quello logico è evidente. L’assenso all’imposizione fiscale da parte del Parlamento fu condizionato fin da principio dall’accoglimento da parte del re delle petizioni che gli venivano rivolte dalle due Camere del Parlamento. Già dal 1400 il Parlamento cominciò a far dipendere la votazione dei sussidi alla corona dall’impegno della corona di esaudire le sue preghiere. Sotto Enrico IV la Camera dei comuni acquistò anche il diritto di priorità, rispetto ai Lord, delle deliberazioni e del voto su tutti i bills si finanza16). Accadeva però che le petizioni venivano interpretate dalla Corona e soprattutto manipolate, per la qual cosa le due Camere sostituirono le petizioni con i bills. E quando si accorsero che i funzionari della Corona manipolavano i bills approvati, restringendone la portata, si provvidero di propri funzionari (i clerks) e trattennero gli originali dei bills approvati nel Palazzo di Westminster a custodia e cura dello Speaker. Solo così si riuscì a sottrarre alla Corona ogni possibilità di intervento sulla legislazione. Ma questi interventi stanno a dimostrare non solo quanto contrastato fosse il processo di appropriazione del potere legislativo da parte del Parlamento inglese, ma anche quanto fosse stato lungo.
Queste due sottrazioni di poteri vanno tematizzate. Intanto perché a subirle è lo stesso soggetto, il monarca, ma soprattutto perché è operata a favore di un organo collegiale, che fosse anche composto, duplice o invece compatto, non rileva. Si può dire che la maestà del re, che in quanto tale è figura singolare, sovraordinata, eccelsa, è immessa in una collegialità, figura organica opposta a qualunque altra figura monocratica, quanto a struttura e quanto ad immaginazione collettiva che ne deriva, il che nell’ambito delle istituzioni statali rileva non poco. La teoria degli organi collegiali è stata ad opera della dottrina tedesca ed italiana (penso al vecchio Vitta) molto prodiga di insegnamenti quanto alle dinamiche funzionali e quanto alle condizioni che consentono a queste figure organiche di potersi legalmente configurare. Ma, se ben ricordo, non ha mai approfondito l’indagine sull’essenza di queste, figure, sulla loro ragion d’essere, sul principio giuspolitico che esse evocano. Ebbene, a mio giudizio, la loro essenza, il loro valore istituzionale è la diffusione che in esse necessariamente si realizza del potere che l’ordinamento connette nel determinare le loro attribuzioni. Se è vero che la competenza è sempre misura della potestà, ed è vero, ebbene, questa misura quando è conferita ad un collegio si articola, si fraziona ulteriormente, si atomizza fino a coincidere con ciascun membro dell’organo collegiale.
Ma nell’essenza della collegialità si annida un ulteriore potenziale oppositivo alla concentrazione del potere che identifica la maestà regia nella sua storica e secolare espressione. Questo potenziale oppositivo è l’eguaglianza dei membri del collegio che presiede alla configurazione dell’organo collegiale ed alle tecniche della sua dinamica. Attrarre la maestà del re nella pluralità delle istituzioni, il Council e il Parliament, significò ridurre alla dimensione dell’eguaglianza la figurazione della sovranità singolare per catturarne il potere, tutto il potere che vi si concentrava. Così la logica strutturale e funzionale di un’istituzione, la dommatica scaturente dalla sua configurazione si pose al servizio del rovesciamento della sovranità dal monarca al Parlamento. E all’interno di questa istituzione si dispiegava, in tutta la sua complessità, la rappresentanza, la identificava e la agiva.
Restavano due problemi. Quello della legittimazione del processi di rovesciamento del potere dall’alto verso il basso, quello tecnico del collegamento, del trait d’union, tra Parlamento ed amministrazione. Ora, trattare della legittimazione è lo stesso che trattare della rappresentanza. Se la legittimazione del monarca veniva da lontano e dall’alto dei cieli, magari con la mediazione dei Papi, che incoronavano e benedicevano o anche scomunicavano, la legittimazione della rappresentanza non soltanto veniva dal basso, rispetto al luogo ove si elevava la corona, e dal basso la sosteneva. Ma traeva la sua forza soprattutto dall’essere funzionale ai bisogni finanziari della Corona, per cinque secoli, già da prima che essa, nel Continente, si identificasse con lo stato, impersonandolo con Luigi XIV o fingendosene servitore, come provava a far credere Federico II di Prussia. Era però – sia chiaro – una rappresentanza censitaria, che, certo, ambiva ad essere politica, e poi riuscendoci, ma difendendo questo suo carattere essenziale, e, con esso, l’assetto economico-sociale da cui traeva il suo poter essere censitaria. Si pensi che per iniziare il processo di riforma di una rappresentanza che manteneva ancora capacità rappresentativa ai borghi, divenuti putridi per l’immigrazione degli abitanti nelle metropoli industriali, metropoli che potevano anche non essere riconosciute come costituency, l’Inghilterra impiegò cinquanta anni. Solo alla fine del XIX secolo e nei primi decenni del XX, infatti, la rappresentanza censitaria divenne rappresentanza nazionale col suffragio universale che, quando fu instaurato, era peraltro solo maschile.
Va detto però che la rappresentanza come fondamento del governo rappresentativo ebbe non in Inghilterra, ma in Francia la sua prima e piena teorizzazione, giusto il genio razionalista ed illuminista di quella Nazione. Si trattava, com’è noto, di espropriare il re della rappresentanza in toto della nazione francese e fondare per un’altra istituzione la legittimazione rappresentativa. Vi provvide Talleyrand il 7 luglio 1789 dissolvendo il mandato imperativo, dimostrandone la fallacia teorica e l’occasionalità della pratica, l’eccezione che aveva espresso nella storia istituzionale francese, e fornendo all’Assemblea nazionale il potere supremo, compreso quello costituente. A ben ragione: gli Stati generali che si erano trasformati appunto in Assemblea generale erano stati eletti a suffragio universale. Rappresentanza ampia, quindi, quella che nel Continente avviò con la Rivoluzione, con la prima Dichiarazione dei diritti della storia politica e giuridica del Continente europeo, con la Costituzione scritta, il regime rappresentativo. Non quello parlamentare che si instaurò in Francia solo con le leggi costituzionali del 1875-76, addirittura ventisette anni dopo che in Italia. Contemporaneamente, cioè, alla fase di allargamento del suffragio universale in Gran Bretagna ed alla trasformazione della rappresentanza.
Trasformazione? Sì. Fino ad allora la rappresentanza si formava per rendere presente nella sede in cui si esercitava il potere politico, le istanze che il potere politico poteva soddisfare. Era stata determinante per la convocazione, l’8 agosto 1788, degli Stati Generali di Francia che si denominarono poi Assemblea nazionale, era già in nuce in questa esperienza di elezione a suffragio universale dei rappresentanti dei tre ordini, era scoppiata con la rivoluzione delle colonie americane della Corona d’Inghilterra, la questione fiscale. La questione cioè di chi, in che misura, su quale base impositiva aveva il potere di decidere delle imposte. Soprattutto la questione di quale rapporto doveva intercorrere tra chi doveva decidere e chi doveva contribuire a soddisfare le esigenze finanziarie dello stato. È ben sicuro che dal 1265, cioè da quando al Parlamento di Simone de Monfort, e poi a quelli di Edoardo I furono convocati due rappresentanti per ogni borgo oltre che i pari, i prelati e i cavalieri, il processo, certo non lineare, di estensione della base rappresentativa aveva coinciso con quello delle fasi di sviluppo del modo di produzione, corrispondendo esattamente, anche se con diversità di cadenze temporali, con l’evoluzione sociale determinata dalle dinamiche economiche. Ma nel corso dell’Ottocento, la rappresentanza muta qualitativamente proprio per effetto della sua estensione quantitativa. Il suffragio universale rivoluziona natura e ruolo della rappresentanza.
Proprio della rappresentanza comincia ad appropriarsi una classe sociale che non era più quella che poteva soddisfare le esigenze finanziarie dello stato. Si trattava di una classe che abbandonate le pratiche luddiste, lotta per il suffragio universale per rappresentare attraverso questo tramite il conflitto sociale, investendo insieme il potere politico, quello economico, quello sociale e quello dalla istituzione centrale dello stato rappresentativo. La pluralità che le istituzioni configurate come organi collegiali aveva esaltato, si era estesa e pretendeva che quell’eguaglianza che segnava il carattere dell’istituzione si riflettesse nella realtà della sua base sociale, una volta che questa base, nella sua interezza, si andava riflettendo giuridicamente nell’istituzione rappresentativa. Quel carattere oppositivo all’esistente politico, che avevamo intravisto nella collegialità come allusivo all’eguaglianza, viene assunto dalla rappresentanza appena la si interpreti e si inizi a sperimentarla come possibile strumento non solo e non più solo per l’estrazione della ricchezza privata per soddisfare interessi pubblici ma per fini distributivi della ricchezza socialmente prodotta finanziando i servizi sociali necessari per il godimento dei diritti sociali. È proprio lo stato sociale dunque che in ultima istanza viene a svolgere il ruolo di realizzare il compimento della rappresentanza che, per essere fino in fondo politica, doveva assumere integralmente il suo contenuto sociale, la sua materialità.
Ma la socialità politica della rappresentanza ne ha anche determinato la crisi. Sembra infatti che si sia trattato di un processo parabolico e che si sia di fronte alla fase della caduta. Al posto della rappresentanza, l’investitura; al posto della democrazia, il dittatore benevolo17). E lo stato? Lo stato ridotto a pigmeo da un vatusso, che assieme agli altri suoi pari, succede agli stati nel monopolio della produzione del diritto pretendendo dai pigmei di usare la loro forza al servizio dei dettami dei vatussi 18) senza però offrire ai destinatari del potere statale quella sicurezza che gli stati offrirono per legittimare il monopolio che acquisirono della forza legittima. Lo stato sociale aveva ampliato l’ambito della sicurezza, non solo garantendola dalla violenza esterna ed interna ma estendendola alla intera condizione umana, dalla ‘culla alla tomba’, come prometteva il programma del movimento operaio di ispirazione marxista e di ispirazione cattolico-democratica. Questo ampliamento aveva comportato una riforma significativa del capitalismo, che ebbe molto successo facendo accrescere ‘la domanda in misura enorme’ e ne segnò quella che fu chiamata la sua ‘età dell’oro’.19) Ma fu breve quest’età.
Già agli inizi degli anni ’70 dello scorso secolo iniziava il rovesciamento delle condizioni e la neutralizzazione degli strumenti che avevano determinato la fase del capitalismo che aveva consentito la nascita dello stato sociale. Un rovesciamento catastrofico.20) A provocarlo fu la decisione politica del governo degli Stati Uniti che, a fronte delle difficoltà che derivavano dalla gestione dell’economia a causa dei petrodollari, sostituì il sistema dei cambi fissi, stabilito dagli accordi di Bretton Woods, con quello dei cambi flessibili.21) Fu sancita così la libertà di movimento dei capitali. Cioè, la liberazione dei capitali dalla potestà degli stati, la liberazione dei capitali dalla democrazia. La contrazione che ne seguì della sovranità statale, si manifestò subito come contrazione dell’area del prelievo fiscale, con tutte le conseguenze. Soprattutto con l’esigenza indefettibile per i governi di assicurarsi gli investimenti, con l’unico strumento ritenuto e propagandato come sicuro, quello dell’incremento della retribuzione dei capitali rassicurando concretamente i loro detentori con il più efficace argomento, quello della detassazione. Impressiona la contestualità dell’intervento ideologico che, a breve distanza dalla riforma degli accordi di Bretton Woods, fu operata dalla Trilaterale teorizzando l’eccesso delle domande della democrazia e della necessità di ridurle stante l’impossibilità del sistema di soddisfarle.22) Si sarebbe aggiunta nei due decenni successivi la rivoluzione informatica, con la trasformazione del processo produttivo, con la delocalizzazione della produzione industriale e la inaudita spinta alla competizione selvaggia.
Allo stato sociale, ormai disarmato dalla leva fiscale, che è stata e resta la condizione indispensabile per sostenere i sevizi necessari per assicurare il godimento dei diritti sociali, si è sostituita, sul piano internazionale, la Trimurti composta dal F.M. I., la Banca mondiale, il W. T. O. Sul piano continentale è stato sostituito dall’Unione europea, il cui Progetto di Trattato che ne istituirebbe la Costituzione, così come la serie di Trattati che lo hanno preceduto, canonizza come principio fondamentale una dottrina economica, catturando in norme che pretenderebbero la qualifica di ‘costituzionali’ tutte le scelte di indirizzo politico immaginabili, precludendo qualunque altra e ponendo una sola come suprema e assoluta, quella dell’instaurazione, dell’affermazione, della perpetuazione dell’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza attraverso azioni che implicano il rispetto dei seguenti princìpi: prezzi stabili, finanze pubbliche e condizioni monetarie sane, bilancia dei pagamenti sostenibile.(art. III-69)23) . È del tutto evidente che la cementificazione dell’indirizzo politico puntuale e complessiva in normative aventi efficacia superiore a quella legislativa, nazionale o europea che sia, degrada detta funzione a mera attività di normazione attuativa, degrada il ruolo delle assemblee elettive, schiaccia la rappresentanza, dissolve la democrazia.
C’è qualche rimedio? Qualche margine? Potrebbe esserci l’uno e l’altro. E non penso solo al rifiuto della ratifica del Trattato istitutivo delle Costituzione europea, credo che, ammesso pure che questo Trattato riesca ad essere ratificato, non è impossibile che possa essere modificato, abrogandone la parte III, quando sarà stata smaltita l’ubriacatura dell’ideologia liberista e le ragioni della politica saranno riemerse per soddisfare i bisogni umani. Penso anche alla possibilità che nei margini, ridotti ma non inesistenti che il Patto si stabilità riserva agli stati sia possibile restaurare la democrazia rappresentativa. E non solo riscattandola dal populismo e dalla manipolazioni derivante da quell’altra ideologia, iniettata nella coscienza nazionale, l’ideologia della personalizzazione e privatizzazione del potere e della monocrazia, anche se elettiva. Ma per rilegittimare la rappresentanza iniettandole dosi forti di partecipazione.
Le considerazioni che precedono non mirano a nascondere la crisi che ha colpito la democrazia rappresentativa per ragioni autonome dalla mondializzazione capitalista e dalla egemonia culturale liberista. Non sono dirette ad eludere gli effetti negativi prodotti dalla crisi dei partiti come luoghi della partecipazione politica di massa che aveva innervato la rappresentanza provando a corroborarla con forme continue di immissioni di domande e di accountability. Mirano a sollecitare riflessioni sul modo come affrontare la crisi, su come la rappresentanza può rafforzarsi integrandosi in forme tali da richiamare e constare la presenza di chi non può assicurare la permanenza nelle sedi in cui si decide, per esempio, sui diritti sociali e sulle spese per sostenerli. In ultima analisi, è sul costo di questi diritti che si è scatenata la lotta che ha posto in discussione lo stato sociale e la democrazia costruita nel secolo breve. Ma sappiamo che alla crisi della democrazia si deve rispondere non con meno ma con più democrazia.
Sappiamo anche altre cose. Che tutti i diritti e non soltanto quelli sociali costano perché garantiti dall’istituzionalizzazione di apparati pubblici sostenuta da tributi fiscali. Sappiamo che è una conquista di civiltà quella sancita dalle Costituzioni ancora in vigore negli stati europei, secondo cui tutti i cittadini sono tenuti a concorre alle spese pubbliche in ragione delle proprie capacità contributive e secondo criteri di progressività delle imposte. Sappiamo pure che, in quanto tali, tutti i cittadini sono contribuenti, per via dell’imposizione diretta e di quella indiretta, e sono contemporaneamente titolari di una frazione di sovranità che specifica il fondamento della democrazia. Perché allora non ipotizzare che i cittadini stessi, integrati nel corpo elettorale, con atto autonomo da quello elettivo, anche se contestuale e rinnovabile a metà della legislatura, in un contesto istituzionale che favorisca il dibattito e non neutralizzi il pluralismo culturale e politico, diventino titolari del potere di decidere la destinazione delle entrate fiscali, raggruppate in alcuni aggregati di spesa, secondo proposte formulate dalle parti politiche e controllate, quanto a serietà e compatibilità, da organi di garanzia effettiva e credibile, nettamente autonome da ogni altro potere?
La rappresentanza parlamentare non sarebbe espropriata di funzioni decisive in materia finanziaria e di bilancio. Conserverebbe per intero il potere di fissare i gradi di capacità contributiva, i caratteri specifici del sistema tributario, la misura della progressività delle imposte, le forme di combinazione tra quelle dirette e quelle indirette. Non solo. Per evitare che una decisione necessariamente maggioritaria del corpo elettorale possa direttamente o implicitamente colpire una parte della cittadinanza, l’ambito della decisione popolare andrebbe determinata in modo da riguardare una parte delle entrate complessive, che potrebbe variare in proporzione dei voti espressi o alla metà della somma globale delle entrate. Resterebbe integro il potere della rappresentanza parlamentare di compensazione, e di mediazione tra gli interessi emersi dalla consultazione. Si innesterebbe proprio sulla rappresentanza la funzione di raccogliere le istanze concretamente espresse dal corpo elettorale, in ragione di una democrazia attiva e vissuta e proiettarle anche in sede europea, per il tramite dei membri del governo che fanno parte delle istituzioni dell’Unione, opponendole alle presunzioni ideologiche astrattamente ed autoritariamente inglobate in norme mai sottoposte ad un reale giudizio popolare.
Le istituzioni che pretendono di governare i grandi spazi non possono legittimarsi se non con la democrazia, che non può essere concepita come derivazione, riporto, come una sorta di cascata in regressione, dagli stati nazionali all’U. E., e poi al F. M. I., al W. T. O., alla B. M., ma è da costruire esattamente in quella stessa dimensione come propria ed originaria, ed è da ricostruire in ciascuna di quelle che la compongono. Il compito è enorme. Ad imporlo è l’obbligo di elevare la condizione umana di ciascuno e di tutti alla dignità umana.